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A Loreto 343

le ave marie delle corone con le pinzette di acciaio e il filo d’ottone, disinvolte e distratte come le donne toscane che fanno la treccia di paglia.

Quando fiutano e vedono forastieri, chiamano, gridano, aprono vetrine, scuotono rosari, offrono imagini e cartoline illustrate, strillano e vituperano chi passa senza comprare o imprecano alle rivali più fortunate. Vivono del tempio, vivono della Madonna, quasi sui gradini dell’altare e così la fede si trasforma in pane pei bisognosi e in vino pei viziosi. Il mercato è sempre aperto e qui il Cristo del Vangelo non potrebbe castigarlo con un flagello di corde attorte, come a Gerusalemme. Ci sono i RR. Carabinieri.

Entrammo finalmente nel tempio, troppo descritto e conosciuto per parlarne qui. Lo splendore dell’arte ha rivestito l’imagine sacra di un manto più ricco ed assai più glorioso di quel che faccia la dalmatica tessuta d’oro e seminata di gemme che copre la rusticità di una scultura ingenuamente barbarica. L’arte del Maccari e del De Seitz era degna di figurare qui dove, secondo la leggenda, cresceva un bosco di allori, prima che ogni pietra di questi muri santificati reggesse una cassetta per le limosine.

È qui, nel breve spazio di questa casupola, fasciata di fuori da marmi lavorati e coronata di statue superbe, in una atmosfera calda di aliti umani, di ceri accesi, di incensi fumanti, che appare manifestamente il miracolo.