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354 Brani di vita

sebbene non di rado si scottasse le dita. Si inginocchiò e ad ogni imagine distribuì imparzialmente la debita razione di Pater, Ave e Gloria; indi corazzatosi con uno sfoggiato segno di croce, contemplò, contento come un bambino, le quattordici statue, dipinte dei colori striduli e violenti dei figurinai ed illuminate da sotto in su dai moccoli fumiganti. Dall’uscio semiaperto si udiva l’acciottolio dei piatti, sintomo dell’imminente desinare, annunziato del resto anche da un odor grasso di frittume, stagnante nell’afa densa della calda serata d’agosto.

Don Vencenzì, distratto dalle sue meditazioni devote, pensò ai maccheroni col sugo; il suo piatto favorito.

Eppure Don Vencenzì era infelice! non si sarebbe detto badando al ventre cucurbitaceo ed al faccione lucido che pareva unto. Certo le funzioni animali si compivano bene in lui anche su due gambe corte e non perfettamente verticali; ma tuttavia era infelice. L’ufficio non gli dava di gran sopraccapi poichè spediva le cause sonnecchiando e, buttando giù col lapis il dispositivo delle sentenze, era tranquillo, perchè il Giudice Avena, un magro scettico ed ironico, si prestava a stendere la motivazione, aguzzando sofismi e cavilli per dare qualche verosimiglianza di diritto ai farfalloni del Presidente. Dopo, ci pensava la Corte d’Appello a mettere in sesto il tutto alla meglio; ma Don Vencenzì nemmeno se ne occupava. Non se ne incaricava, diceva lui.

Nè gli davano noia le risate del pubblico quando, presiedendo in Corte d’Assisie, non capiva il dia-