Pagina:Guglielminetti - La porta della gioia, Milano, Vitagliano, 1920.djvu/249

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l'ombra che scende


D’un tratto, come per un baleno improvviso nell’oscurità opaca della memoria, quel viso, quel nome, quell’uomo erano risorti dal suo turbinoso passato e la guardavano con un sogghigno beffardo, le dicevano con una smorfia malvagia, con una voce d’ilare e freddo sarcasmo:

«Eccoci dunque di nuovo qui, l’una di faccia all’altro. Tu m’hai lasciato vituperandomi e ti ritrovo dopo un discreto numero d’anni mutata in tutto, anche nel nome. Io sono sempre Attilio, il fannullone, ma tu sei diventata la baronessa Anna Maria Almichi, onesta gentildonna in apparenza ed hai anche una figliuola da marito che si è fidanzata a mio fratello. Mi rallegro, Mara, mi rallegro. Però esistono alcune difficoltà, poichè mio fratello non deve sposare la figlia di una, diciamo così, di una volgare benchè astuta avventuriera. Mio fratello appartiene come me ad una onorata famiglia e non può imparentarsi con gente della tua specie. Hai inteso?».

Queste parole pronunciate con un ilare e freddo sarcasmo parevano esalarsi da quel cartoncino oscuro da cui una faccia d’uomo, una magra faccia affilata, asimmetrica nella contrazione dell’orbita che sosteneva il monocolo, la guardava con una sprezzante fissità di nemico. Un freddo nemico era stato per lei nel brevissimo svolgersi della loro relazione quel giocatore arrogante e borioso che l’aveva strappata una sera


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