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libro sesto ‐ cap. vi | 109 |
che importava piú, aiutarlo a recuperare gli stati di Romagna, i quali giá tutti, dalle fortezze in fuora, si erano alienati dalla ubbidienza sua.
VI
Le cose della quale provincia, piena di molte novitá e mutazioni, tormentavano con vari pensieri l’animo del pontefice, conoscendosi per allora impotente a disporla ad arbitrio suo, e con difficoltá potendo tollerare che la grandezza de’ viniziani vi si ampliasse. Perché, come in Romagna si era inteso la fuga del Valentino in Castel Santo Agnolo e l’essersi dissipate le genti che erano seco, quelle cittá che prima cupidamente l’avevano aspettato, perduta la speranza della sua venuta, cominciorno a prendere diversi partiti. Cesena era tornata alla divozione antica della Chiesa; Imola, essendo stato il castellano della rocca per opera di alcuni principali cittadini ammazzato, stava sospesa, desiderando alcuni il dominio della Chiesa altri desiderando di ritornare sotto i Riari primi signori. La cittá di Furlí, stata posseduta lungamente dagli Ordelaffi innanzi che per concessione di Sisto pontefice pervenisse ne’ Riari, aveva richiamato Antonio della medesima famiglia; il quale, avendo prima tentato di entrarvi con favore de’ viniziani ma dipoi temendo che essi, per occuparla per sé, non usassino il nome suo, ricorrendo a’ fiorentini vi era ritornato con aiuto loro. In Pesero era ritornato Giovanni Sforza, in Rimini Pandolfo Malatesta; l’uno e l’altro chiamati dal popolo: ma Dionigi di Naldo, soldato antico del Valentino, richiesto dal castellano di Rimini andò in soccorso suo; però, essendosene fuggito Pandolfo, la cittá ritornò sotto il nome del Valentino. Faenza sola era perseverata nella divozione sua piú lungamente; ma privata alla fine della speranza