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libro quartodecimo - cap. vi 109

VI

Rammarico del pontefice e meraviglia generale per la decisione presa dai comandanti dell’esercito ispano—pontificio; posizione degli eserciti nemici. Sfortuna dell’esercito di Cesare in Fiandra. Nuovi piani di guerra degli ispano—pontifici. Cattiva fortuna e temeritá dei fuorusciti milanesi. Vano tentativo di Giovanni de’ Medici contro il ponte di barche sul Po. L’esercito pronto a passare al di lá del fiume. Gli svizzeri lasciati nelle terre della Chiesa e contro il duca di Ferrara.

Afflisse questa deliberazione maravigliosamente il pontefice, che aspettava che i suoi fussino entrati in Parma; parendogli di essere caduto, contro a ogni ragione, della speranza della vittoria, e trovandosi entrato in profondissimo pelago e sottoposto a peso gravissimo, perché, dalle genti d’arme e fanti spagnuoli in fuora, generalmente tutta la spesa della guerra si sopportava da lui; e, quel che era peggio, dubitando della fede de’ capitani cesarei. Nella quale dubitazione concorrevano ancora molti, i quali si persuadevano che il ritirare il campo da Parma non fusse stato timore ma artificio, come quegli che avessino sospetto che il pontefice, recuperata che avesse Parma e Piacenza, non gli appartenendo piú altro dello stato di Milano, raffreddasse i pensieri della guerra, né volesse per gli interessi degli altri sostenere piú tanta spesa e tanto travaglio: di che faceva fede il conoscersi quanto lentamente fussino proceduti a porre il campo a Parma; lo averlo posto in luogo impertinente, poiché presa la minore parte della terra si aveva con le medesime difficoltá a cercare di pigliare l’altra; vedere con quanta dilazione e lentezza avevano governato la oppugnazione, come se industriosamente dessino tempo alla venuta del soccorso de’ franzesi; e che ultimamente, essendo giá in possessione di parte della terra, al nome solo dello approssimarsi Lautrech ancora che con esercito inferiore, l’avessino vituperosamente abbandonata. Alcuni altri dubitavano che, senza coscienza di Prospero, potesse essere stato artificio del marchese di Pescara, detrattore quanto poteva e invidioso della gloria sua. Nondimeno, fu forse piú sana opinione di quegli