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libro decimonono - cap. vi | 235 |
erano quattrocento) che erano stati messi dagli spagnuoli alle difese; e che, innanzi si entrasse, mille fanti tra spagnuoli e italiani, usciti per la porta del castello, furno rotti da’ cavalli. Ma cominciato a entrare dentro l’esercito, Galeazzo da Birago con molti soldati e uomini della terra si ritirò in castello. La cittá tutta andò a sacco, poco utile per i due sacchi precedenti. Il castello si accettò a patti, perché era necessario batterlo e in campo non era munizione, e i fossi larghissimi e profondissimi da non si riempiere sí presto, e dentro rifuggitivi cinquecento uomini di guerra. I patti furono che gli spagnuoli (che secondo il Martello in Pavia furno seicento), con l’artiglierie e munizioni che e’ potessino tirare a braccia e ogni loro arnese, avessino facoltá, insieme co’ tedeschi che erano restati pochissimi, di andarsene a Milano; e gl’italiani, in ogni luogo fuora che Milano.
VI
Presa Pavia, consigliò il duca d’Urbino che non si pensasse a sforzare Milano, perché bisognava esercito bastante a due batterie, ma per fargli danno grande si pigliasse Biagrassa, San Giorgio, Moncia e Como, e che si attendesse al soccorso di Genova: perché se bene i tedeschi e svizzeri avevano risposto a Montigian di volere andare a Genova, nondimeno i tedeschi, per non essere pagati, se ne andorono a Ivrea; in modo che non si era mandato soccorso alcuno al Castelletto, dove Andrea Doria minava sollecitamente. Però San Polo, che era restato con cento lance e dumila fanti,