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270 | storia d'italia |
XIII
Ma gli imbasciadori fiorentini, presentatisi intanto a Cesare, si erano nella prima esposizione congratulati della venuta sua, e sforzatisi di farlo capace che la cittá non era ambiziosa, ma grata de’ benefici e pronta a fare comoditá a chi la conservasse; aveano scusato che era entrata nella lega col re di Francia per volontá del pontefice che la comandava, e avere continuato per necessitá; non procedendo piú oltre, perché non aveano commissione [di conchiudere, ma] di avvisare quello che fusse proposto loro, ed espresso comandamento della republica che non udissino pratica alcuna col pontefice; visitare gli altri legati suoi ma non il cardinale de’ Medici. A’ quali innanzi fusse risposto, disse loro il gran cancelliere, eletto nuovamente cardinale, che era necessario satisfacessino al pontefice; e querelandosi essi della ingiustizia di questa dimanda, rispose che, per essersi la cittá confederata con gli inimici di Cesare e mandate le genti a offesa sua, era ricaduta dai privilegi suoi e devoluta allo imperio, e che però Cesare ne poteva disporre ad arbitrio suo. Finalmente fu risposto loro, in nome di Cesare, che facessino venire il mandato abile a convenire eziandio col pontefice, e che poi si attenderebbe alle differenze tra il papa e loro; le quali se prima non si componevano, non voleva Cesare trattare con loro gli interessi propri. Mandoronlo amplissimo a convenire con Cesare, ma non a convenire col pontefice: però, essendo Cesare (che partí da Genova a’ trenta di agosto) andato a Piacenza, gli imbasciadori seguitandolo non furono ammessi in Piacenza poiché si era inteso non avere il mandato nel modo che aveva chiesto Cesare. Cosí restorono le cose senza concordia.