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XVIII

«Stanze sopra la ceciliana».
1
Giá cominciato avea di piú colori
a dipinger il ciel la vaga Aurora,
quando Dameta a depredar gli onori
dei verdi campi spinse il gregge fuora.
e, per far noti in parte i suoi dolori
a quella ninfa che Toscana onora,
sonando sopra un sasso seder volse
e la sua lingua in tai parole sciolse:
2
— Poiché Clori mi fugge e mi s’asconde
né vuol udire il suon de la mia lira,
datemi orecchie voi, silvestri fronde,
e voi, venti, fra voi posate l’ira,
correte senza strepito, o chiare onde,
e tu, Sol, piú quieto il carro gira,
né ti sdegnar con piú pietosi accenti,

Eco, di ripigliare i miei lamenti.
3
O ciel che mi ricuopri col tuo manto,
mentre su questo sasso aspetto il giorno,
ecco converso in duol quel dolce canto
per cui giá queste valli risonorno;
ecco che i rivi del mio vivo pianto
fan di piú largo onore il Tebro adorno:
dunque a pietá quel duro cuor rivolta
o almen pietoso i miei dolori ascolta.
4
Come potrò fra queste valli ombrose
sperar piú luce, se mi fugge il sole?
come vedrò mai piú ligustri e rose,
se ne le guance sue portar le suole?
come potrò con rime si pietose
placarla, se ’l mio canto udir non vuole,
ma, qual toro superbo, prende a sdegno
il dolce suon del mio ricurvo legno?