Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/116

Da Wikisource.

XXIV

Ormai non spera piú.

Non mi dolgo io ch’a’ miei desiri ardenti
con duro freno interrompeste il corso,
ma che con aspro, insopportabil morso
li reggiate ora che son freddi e lenti.

Se bramate vederli al tutto spenti,
e poi, deposto il cor di tigre e d’orso,
porger di tarde grazie alcun soccorso,
quando non senta piu gioia o tormenti,
fia qual sostegno a mal incisa trave
da la ruina sua rotta e sepolta
o come porto a giá sommersa nave.

La mia speme di vetro al fondo è volta,
né piú l’alma sostien peso si grave
e grido aita, e pur nessun m’ascolta.

XXV


Altri in breve gli rapisce il suo lungo amore.

Porta il buon villanel da strania riva
sovra gli omeri suoi pianta novella
e, col favor de la piú bassa stella,
fa che risorga nel suo campo e viva;

indi ’l sole e la pioggia e l’aura estiva
l’adorna e pasce e la fa lieta e bella;
gode il cultore e sé felice appella,
ché de le sue fatiche il premio arriva:

Ma i pomi, un tempo a lui serbati e cari
rapace mano in breve spazio coglie,
tanta è la copia degl’ingordi avari.

Cosi, lasso! in un giorno altri mi toglie
il dolce frutto di tant’anni amari
ed io rimango ad odorar le foglie.