Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/244

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8
Non è senno sprezzar quel che ognun prezza:
come, del vostro ingegno il lume è casso?
schernite sola voi quella bellezza
che può Vener dal ciel tirare al basso?

Voi spregiate una fede, una fermezza
ch’avria forza a piegar un cor di sasso.

Ahi! non piú, no, ch’ognun vi mostra a dito,
ché mai fu al mondo il maggior torto udito.
9
Non vi ritenga s* il bel volto ancóra
barba non chiama o tropp’acerba etate;
ché un discorso divin seco dimora,
come divina ancóra è sua beltá te:
e voi la prova ne vedete ognora,
che, per usargli strazi e crudeltate
e per dargli repulse a piú non posso,
giá mai non s’è di sua costanza mosso.
10
Sarete adunque voi nova Medea?
che avrete il cor di smalto e di diamante
a tenér in angoscia e pena rea
si bel, si vago e si fedele amante
c’ha sofferto il martir, mentre potea?

Ora soffrirlo piú non è bastante,
ché midolla non ha ch’ornai non arda.

A che piú state ognor pensosa e tarda?
11
Né piú mover si puote ancor che voglia,
tal ardor ne le vene Amor gli mesce:
crescono gli anni in lui, cresce la voglia
e con la voglia insieme ’l fuoco cresce:
sempre si strugge e par ch’a voi non doglia
il suo gran mal ch’a tutto il mondo incresce,
ed a me piú degli altri, c’ho veduto
quel che mai prima non avria creduto.