Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/85

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CXXVII

Ecco di nuovo turbata la sua quiete. (1539)

Quella che ’n sen portai scolpita e viva,
falsa e caduca imagine d’onore,
quell’interna speranza e quello errore
che fèr la mente del ben proprio schiva,
avea deposto in su la manca riva
del bel Metauro, e ’n su ’l mio freddo core
piovean giá fiamme de l’eterno Amore
e ’l sentier di salute mi s’apriva;

giá gli affetti terreni erano in bando,
giá l’alma era per gir lieta e spedita
a mirar sua beltá nel divin volto;

quand’ecco che dal Tebro aura turbando
vien si tranquilla e si serena vita:
dolce stato gentil, chi mi t’ha tolto?

CXXVIII


A Francesco Venier
scampato da fiero fortunale.

(maggio 1540)

Dimmi, Veniero mio, se ti sovvenne
del tuo lume nel mar fèro e turbato
e se col raggio suo chiaro e beato
nel periglio t’apparve e ti sostenne;

o se ’l bel coro de le ninfe venne
con Doride a placar Nettuno irato,
o se, nel santo seno innamorato
fuggendo Amor, la madre ti ritenne,
perché sentissi che il suo foco è vivo
ancor ne Tacque, né difesa o fuga
vai contra lui che tutto frena e vince.

Veggio di si lontan che ’l dolce rivo
de’ suoi begli occhi la Pietade asciuga
ed odo Amor che tua ragion convince.