Pagina:Guidiccioni, Giovanni – Rime, 1912 – BEIC 1850335.djvu/95

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con lo spiar se stesso, e, conosciute
quante ha l’animo forze alte e divine,

297 procacciarsi speranza di salute;

quel col difender da crudei rapine
e ricovrar con penne e con la lingua
300 le genti afflitte al riposato fine;

questo col contemplar, nasca o s’estingua
Arturo, che procella o vento ha seco
303 e che spazio l’un ciel l’altro distingua;

chi seguendo il famoso, ardente greco
che, di Troia cantando e del suo Ulisse,

306 il lume di virtú ne mostrò cieco;

chi la coppia gentil ch’ornato scrisse
si ch’ai latino stil die’ sommi fregi,

309 e dava anco maggior, ma corto visse;

dico di que’ duo spirti altèri, egregi,
che l’un Tibreno e l’altro il Mincio onora,
312 né ben s’intende ancor qual piú s’appregi.

E lasciato gli altri errar dal dritto fuora,
non certi mai come soave spire
315 ne’caldi affanni un’amichevol óra;

lasciatoli pur bramar con folle ardire
quant’oro il Gange, il Tago, il Tebro mena,
318 ed essi stessi in preda al lor desire;

e, vista de’ vizi empi un’orma a pena,
l’altra segnar dal voler cieco spinti,

321 mentre han coscienza per lor ferma pena;

coi cori insidiosi e i volti finti
sugger il sangue al poverel meschino,

324 di tumido livor dentro e fuor tinti;

godersi il mondo e il lor dolce destino
tra pensier lenti e tra gonfiate piume,

327 e vivande condir, notar nel vino:

vana turba volgar, eh’ il vero lume
hai per negletto e ’l falso intenta vedi,

330 e, posto in bando ogni gentil costume,

al torto oprar sol vaneggiando credi.