Pagina:Hypnerotomachia Poliphili.djvu/386

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hereditariamente per molti anni. Ma il vario et inconstante caso, et ordine della fallace fortuna, et infido tempo, sotto a diversi tyranni occupata, finalmente sotto al iustissimo imperio del sancto et feroce Leone Marino, opitulante lo optimo et maximo Iove humanato, essendo felice divenuta Io degli superstiti lineali et prisca familia Lelia, alumna et prognata fui. Et postomi il prestante nome della casta Romana, che per il filio del superbo Tarquino se occise. Nutrita patriciamente, cum molte delitie, perveni al fiore della etate mia. Nel anno della redemptione humana. Dapò gli quatrocento et mille, nel sexagesimo secondo. Io stava come alle vage adolescentule è consueto alla fenestra, overamente al podio del palacio mio, cum gli mei biondissimi capelli, delitie puellare, per le candide spalle dispositi, et dall’ambrosia cervice dependuli, quali fili d’oro rutilanti, alii radii di Phoebo insolando siccantise, gloriabonda accuratissima comente gli pectinava. D’indi a caso passando allhora Poliphilo. Diqué io ardisco di dire, che cusì belli a Perseo non aparveron quegli di Andromeda. Né quegli di Fotide a Lucio. Cusì ello cum intenti et mordaci risguardi accortose, sencia mensuratione et cum incremento d’amore repente se accense. Et il suo tenero et apto core sencia respecto apertosi et per medio ischiantatose (quale ruvido Robure dal fulguratore Iove fulminante percosso, se sfinde) nel primo et puro risguardo. Et Cupido disociato et impigre, cum le sue urente fiamme multiplicabile intromissose, repente sencia alcuna difesa et resistentia succenso et capto. Quale aviculetta simplicula in lacioli imbricosi per poca esca. Et il pisciculo lo hamo inuncando incorre, placidamente cedette. Et del mio legiadro et venusto aspecto desideroso inspectore facto, caldamente appetiva. Il quale molte fiate io nel speculo chiaramente riguardando, dubitava diciò, che quello che ad Narciso advene, a me il simigliante non accadesse. Como nel presente nel mio aspecto patentemente il veddete. Né questo peroe a iactantia debbi esser insimulato. Perché il se adagia. Cusì como fingere et simulare il falso, è vitio. Non meno celare il vero. Dunque de gli novelli et primarii fochi nel pecto suo fundato uno cruciare amoroso, alhora di me affectuoso amante. Diqué già preso in tale amoroso decipulo, per havere qualche condigno consequio di tale Amore. Omni singulo dì, dal palacio mio sedulo viagio prendeva. A l’alte et vacue fenestre riguardando. Non valeva adimpire il frameo desio di rivederme, almeno una fiata. Et per tale cagione havendo cum tanto angore, assai giorni et nocte, passi, vigilie, canti et soni, cum parolette da sospiri formate, cum urgente solicitudine vanamente deperdite. Solamente esso pena et tedio del suo fastidioso et molesto vivere, disperato