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150 Capitolo ventiduesimo

bando, — disse Albani. — Amici miei, scendiamo e cerchiamo di porre in salvo le nostre ricchezze. Quei furfanti, scorgendo la nostra capanna, non mancheranno di fare una visita a questa costa. —

In meno che lo si dica furono a terra. Non erano rimaste molte provviste sotto la tettoia e anche perdendole poco danno ne avrebbero risentito, avendo riempita quasi la caverna della mummia, ma premeva a loro porre in salvo gli animali ed i volatili del recinto che si erano procurati con tante fatiche.

Attaccarono la carretta al babirussa, vi gettarono dentro i loro pochi arnesi, le stoviglie, i pochi pezzi di tela che ancora possedevano e quante provviste vi potevano stare, poi legarono i volatili che erano ormai una ventina e fuggirono verso la caverna seguiti dalle due scimmie che conducevano i due piccoli babirussa e dallo Sciancatello che trascinava i due orsi.

Un quarto d’ora dopo giungevano nei loro vasti magazzini sotterranei. Albani ed il marinaio incaricarono il mozzo di mettere ogni cosa a posto, poi armati delle cerbottane e di due fasci di frecce avvelenate, fecero ritorno alla costa settentrionale, per sorvegliare le mosse di quel tia-kau-ting sospetto.

Quando giunsero sul margine della piantagione di bambù, il legno, spinto da una leggiera brezza che soffiava dal nord-est, navigava lentamente verso l’isola, colla prora volta verso il luogo ove sorgeva la capanna aerea. Ormai non vi era alcun dubbio: l’equipaggio stava per approdare.

— Mille terremoti! — esclamò il marinaio, aggrottando la fronte. — Quelle canaglie hanno scorto la nostra capanna e vengono di certo a distruggerla.

— Noi non sappiamo ancora quali siano le loro intenzioni, Enrico, — disse Albani. — Forse vengono a cercare dell’acqua od a raccogliere del legname per riparare qualche guasto.

— Scorgete quel gruppo di persone a prora?