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I Vicerè 231

sapeva ogni cosa! — faceva venire giornali, proclami e altra roba proibita; a don Lorenzo, anzi, avean fatto una visita domiciliare; ma dal duca non andavano, pel rispetto dovuto alla famiglia Uzeda... Questo appunto don Blasco non poteva soffrire: che egli godesse dell’impunità, che si parlasse di lui come d’un capo rivoluzionario senza che corresse rischi di sorta; voleva che lo trattassero come gli altri, che lo legassero più stretto degli altri. «Sono tutti cani arrabbiati! ci vuole il bastone! Ci vuole la museruola!» Garino scrollava il capo: l’Intendente Fitalia non avrebbe potuto permettere che si molestasse il duca d’Oragua, finchè, beninteso, egli non si arrischiava troppo; ma questo era certo e sicuro: chè un gran signore come lui aveva tutto da perdere e niente da guadagnare mettendosi coi «malpensanti» e gli arruffapopolo: il signor Intendente glie l’aveva detto a faccia a faccia!... Allora, udendo che suo fratello andava dal rappresentante del Governo, don Blasco sfogava a un altro modo:

— Volpone! Camaleonte! Giubba rivolta!... Come possono fidarsene? È del partito di chi vince! Li giuoca tutti! Tradirebbe suo padre che lo creò!...

E andando via dalla Sigaraia ripeteva quei discorsi in pubblico, nella farmacia di Timpa, che era il quartier generale dei fedeli, mentre in quella di Cardarella si davan convegno i rivoluzionarii. Se qualcuno, scandalizzato dalla violenza del monaco, gli faceva osservare che non stava bene parlare in tal modo, agli estranei, del proprio fratello:

— Fratello? — protestava egli. — Io non ho fratelli! Non ho parenti! Non ho nessuno: com’ho da cantarvelo?...

Si dava al diavolo, perchè niente andava a modo suo, al palazzo. L’anno innanzi, al momento della scadenza del termine stabilito dalla principessa pel pagamento alle figlie, Chiara e Lucrezia non erano andate d’accordo; il marchese, biasimando l’amore della ragazza per Giulente, s’era riavvicinato al principe, il