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I Vicerè 233

girava per la Sicilia col pretesto degli affari, ma per lavorare invece contro il governo: e don Blasco e donna Ferdinanda si divertivano a predire che un giorno o l’altro l’avrebbero buttato in galera, poichè quella predizione faceva piangere l’intrusa. Il duca, invece, parlava molto bene del barone, s’intratteneva a lungo con lui quando passava da Catania: adesso esaltava il genio di Cavour, i trionfi della sua politica; se gli rimproveravano le antiche critiche alla spedizione di Crimea, negava d’averne mai fatte; e giudicava che la via per la quale s’era posto Francesco II fosse sbagliata: l’alleanza bisognava farla col Piemonte, non con l’Austria, e concedere la costituzione, non inquietare i patriotti, perchè Napoleone aveva parlato chiaro: l’Italia doveva esser libera dall’Alpi all’Adriatico....

A don Blasco veniva di vomitare, udendo queste cose, e s’arrovellava, non potendo prendersela direttamente col fratello maggiore; ma il giorno che arrivò la notizia della pace di Villafranca, per poco non gli prese un accidente, dall’esultanza. Lungo i corridoi di San Nicola, dinanzi ai monaci dell’altro partito che tenevano, mogi mogi, la coda fra le gambe, vociava, trionfante:

— Ah, il gran Cavour? Ah, il gran Piemonte? Dove sono adesso? Perchè non continuano la guerra da soli? Dov’è andato l’Adriatico? Dov’è andato il Mar Tirreno? E quella bestia che sputava sentenza, empiendosi la bocca di Nabboleone! Napoleone aveva confidato proprio a lui quel che voleva fare! Credevano d’esserselo posto in tasca, Napoleone!...

— O non l’avevate con lui perchè non si grattava la sua tigna?

— Come? Quando? So molto io!... La baldoria è finita!... Ma che re, Francesco II? Ma che re? Degno figlio di suo padre!...

Se avessero fatto lui re, non avrebbe messo più boria, non avrebbe guardato la gente da tant’alto. E si sgolava anche al palazzo, vedendo che il fratello scrollava