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248 | I Vicerè |
Mentre tutti parlavano di libertà e d’eguaglianza, nessuno pensava a prendere un provvedimento che dimostrasse al popolo come i tempi fossero cangiati e i privilegi distrutti e tutti i cittadini veramente ed assolutamente uguali. Egli propose e fece decretare l’abolizione del pane sopraffino. Allora diventò un grand’uomo.
Don Blasco, rimpiattato al convento, schiumava: non tanto, forse, per la rovina del suo partito e pel trionfo dell’eresia, quanto per sapere suo fratello considerato a un tratto come uno degli eroi della libertà: il Governatore non faceva nulla senza del duca, lo metteva in tutte le commissioni, un codazzo di ammiratori lo accompagnava al palazzo Francalanza, che egli aveva fatto riaprire e riabitava perchè la chiusura non s’imputasse al borbonismo della famiglia: e la gente minuta, gli operai, tutti quelli che non sapevano che cosa sarebbe successo, convertivansi al nuovo partito udendo che un gran signore come il duca d’Oragua, uno dei Francalanza, ne faceva parte: le dimostrazioni patriottiche, di giorno e di notte, con musiche e fiaccole e bandiere si succedevano sotto il palazzo come sotto le case dei vecchi liberali, di quelli che erano stati in galera o tornavano dall’esilio. Adesso tutti parlavano in piazza, dai balconi, per eccitare il popolo, o per discutere il da fare nelle società che si venivano costituendo; ma il duca, incapace di dire due parole di seguito in pubblico, atterrito all’idea di dover parlare dinanzi alla folla, scendeva giù ad incontrarla al portone, se la cavava gridando con essa: «Viva Garibaldi! Viva Vittorio Emanuele! Viva la libertà!...» conducendo al caffè i volontarii garibaldini, pagando loro gelati, sigari e liquori. Formata la Guardia nazionale, lo fecero maggiore: tutti i giorni egli mandava ai corpi di guardia bottiglioni di vino, focacce, pacchi di sigari, regali di ogni genere. E la sua fama cresceva, cresceva: oramai non si metteva fuori una bandiera senza «Oracqua» — come pronunziavano i più; — nelle dimostrazioni il grido: «Viva Oracqua!» era altrettanto frequente quanto: