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I Vicerè 253

valiere, adesso, perduta la speranza degli scavi di Massa Annunziata, aveva concepito un nuovo disegno: farsi nominare professore all’Università. Non v’erano stati parecchi suoi avi pubblici lettori? L’impiego era decoroso e nobile; la cattedra di storia, specialmente, gli faceva gola. Le sue conoscenze archeologiche, l’opuscolo sulla Pompei Sicola, erano buoni titoli: per averne ancora di migliori, egli scriveva una Istoria cronologica dei Vicerè Uzeda, luogotenenti dei Regi Aragonesi nella Trinacria. Come Gentiluomo di Camera, non si lasciava molto vedere; ma certo che la rivoluzione sarebbe stata schiacciata da un momento all’altro, anche lui se la prendeva col duca.

— Chi parla di popolo! Se tornassero i Vicerè dall’altro mondo! Se sentissero di queste eresie, se vedessero un loro pronipote unirsi alla ciurmaglia!...

Don Cono, don Giacinto, don Mariano, tutti i lavapiatti scrollavano il capo, addolorati anch’essi da quel tralignamento; però tentavano placare il giusto sdegno dei puri, giudicando il liberalismo del duca un liberalismo di parata, una necessità politica del momento; era impossibile che, in cuor suo, il figlio del principe di Francalanza, uno di quegli Uzeda che dovevano tutto alle legittime dinastie, potesse godere dell’anarchia e dell’usurpazione!

— Tanto peggio! — urlava don Blasco. — Capirei un fedifrago risoluto, che avesse il coraggio del tradimento! Ma se tornano i napoletani, colui andrà a baciar loro il preterito!... Vedrete, quando torneranno!...

Ma non tornavano. Arrivavano invece, una dopo l’altra, le notizie della partenza di Francesco II da Napoli, dell’ingresso trionfale di Garibaldi, dell’avanzarsi dei piemontesi incontro ai volontarii. Al Belvedere, dove il principe tornò alla fine di settembre, per la villeggiatura, Lucrezia lesse i bollettini della battaglia del Volturno che portavano Benedetto Giulente tra i feriti. Ella non pianse, ma si chiuse in camera rifiutando il cibo, sorda ai conforti di Vanna la quale le prometteva che