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348 I Vicerè

scandalo giungeva, tutti discutevano della condotta da tenere verso la coppia al ritorno in città. Molti dichiaravano che avrebbero troncato ogni rapporto; altri, più intimi, perciò più imbarazzati, facevano dipendere la loro risoluzione dal modo col quale si sarebbe comportata la famiglia. Ora l’improvvisa fredda accoglienza del principe a Pasqualino significava chiaro che egli ritirava loro a un tratto il suo appoggio. Dinanzi all’ostacolo Raimondo s’impennava, prendeva l’impegno di vincere; ma come donna Ferdinanda gli suggerì di andare personalmente da Giacomo, egli entrò in una sorda agitazione: era disposto a far tutto fuorchè a pregare quel birbante che, dopo avergli dato mano, gli si schierava contro chi sa per qual fine, fuorchè ad umiliarsi dinanzi a quel fratello dal quale per tanti anni, ai tempi della madre, s’era sentito odiato. Poi il pensiero delle dimostrazioni ostili che si preparavano a lui ed all’amica sua lo arrovellava, gli metteva un’altra smania nel sangue. E un giorno prese una carrozza e salì al Belvedere. Giacomo, vedendolo arrivare, gli disse, non nel dialetto familiare, ma in lingua:

— Buon giorno, come stai? — e senza stendergli la mano.

— Bene, e tu? — rispose Raimondo.

— Benissimo, — e il principe si lisciò la barba.

La principessa che si teneva accanto Teresina intenta a ricamare, rispose a monosillabi alle domande del cognato, sentendo pesarsi addosso lo sguardo del marito.

— Resterete ancora un pezzo? — domandò Raimondo, rosso come un papavero.

— Sì, fino a novembre. Te lo mandai a dire, credo.

E lasciò di nuovo cadere il discorso. La bambina volgeva tratto tratto lo sguardo a quello zio di cui non rammentava bene le fattezze, che non l’accarezzava, che suo padre trattava come un estraneo.

— Volevo dirti una cosa, — riprese Raimondo esitante, quasi pauroso, e tanto più crucciato contro sè stesso quanto più cresceva il suo impaccio. — Volevo