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I Vicerè 43

degli estranei. Forse, se Raimondo fosse venuto a tempo, quando sua madre lo aveva insistentemente chiamato, egli avrebbe saputo qualcosa; ma il conte, divertendosi a Firenze, aveva fatto orecchio da mercante, quasi non si trattasse dei suoi propri interessi. Possibile, allora, che la principessa non si fosse confidata proprio a nessuno? a qualcuno dei cognati? a un uomo d’affari, almeno? Di botto don Blasco, lasciando in pace Cavour e la Russia:

― E allora, che sugo ci sarebbe stato? ― esclamò. ― Così fanno tutti coloro che ragionano, eh?... Ma in questa casa la logica era un’altra!... Nessuno doveva saper niente! tutto si doveva fare a loro capriccio; sempre chiusi, sempre misteriosi, come se fabbricassero moneta falsa!

Il presidente scrollava il capo con bonomia, per acquietare il monaco focoso; ma questi proseguiva:

― Volete sapere che dirà il testamento? Domandatelo al confessore!... Sissignori: al confessore!... Voi al confessore di che parlate? Dei peccati, eh? delle cose di coscienza?... Degli affari, naturalmente, incaricate gli avvocati, i notai, i parenti, sì o no?... Qui invece il confessore scriveva il testamento: forse il notaio impartiva l’assoluzione!

Alcuni sorridevano a quelle sparate, e le supposizioni avevano libero corso. Il presidente era sicuro, checchè si dicesse in contrario, che l’erede sarebbe stato il principe, con un forte legato al conte; e il generale confermava: «Sicuramente, l’erete del nome!» ma il barone Grazzeri scrollava il capo: «Se non andarono mai d’accordo?» Don Mario Fersa, infatti, piano al cavaliere Carvano, manifestava la sua opinione, secondo la quale l’erede sarebbe stato Raimondo. Forse il contegno di lui durante la malattia della madre, il costante rifiuto di venire a vederla, potevano avergli un poco nociuto; ma la preferenza dimostrata dalla principessa a quel figliuolo era stata troppo grande perchè in un momento ne andassero dispersi gli effetti. «Non dimenti-