Pagina:I promessi sposi (1840).djvu/342

Da Wikisource.
336 I PROMESSI SPOSI

a’ piedi, e pensò — è passata sotto il ponte! — Così, all’uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. — Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole. —

Voltò le spalle a que’ tristi oggetti, e s’incamminò, prendendo per punto di mira la macchia biancastra sul pendìo del monte, finchè trovasse qualcheduno da farsi insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s’accostava a’ viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia da fare.



Quel viaggio non fu lieto. Senza parlare de’ guai che Renzo portava con sè, il suo occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da’ quali dovette accorgersi che troverebbe nel paese in cui s’inoltrava, la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne’ borghi, incontrava a ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, montanari, artigiani, famiglie intere; e un misto ronzìo di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero de’ casi suoi.

— Chi sa, — andava meditando, — se trovo da far bene? se c’è lavoro, come negli anni passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figliuolo, ha fatto danari, m’ha invitato tante volte; non m’abbandonerà. E poi, la Provvidenza m’ha aiutato finora; m’aiuterà anche per l’avvenire. —