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DELLA COLONNA INFAME 807

l’affare. Ma,” soggiunge, “temevano di non trovarlo reo.” E questa veramente è la chiave di tutto.

Interrogarono però su quel particolare la povera moglie del Mora, la quale alle varie domande rispose che aveva fatto il bucato dieci o dodici giorni avanti; che ogni volta riponeva del ranno per certi usi di chirurgia; che per questo gliene avevan trovato in casa; ma che quello non era stato adoprato, non essendocene stato bisogno.



Si fece esaminare quel ranno da due lavandaie, e da tre medici. Quelle dissero ch’era ranno, ma alterato; questi, che non era ranno; le une e gli altri, perchè il fondo appiccicava e faceva le fila. “In una bottega d’un barbiere,” dice il Verri, “dove si saranno lavati de’ lini sporchi e dalle piaghe e da’ cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d’estate?1

Ma in ultimo, da quelle visite non risultava una scoperta; risultava soltanto una contradizione. E il difensore del Padilla ne deduce, con troppo evidente ragione, che “dalla lettura dell’istesso processo offensiuo, non si vede constare del corpo del delitto; requisito e preambolo necessario, acciò si venga a Reato, atto tanto pregiudiciale, e danno irreparabile.” E osserva che, tanto più era necessario, in quanto l’effetto che si voleva attribuire a un delitto, il

  1. Oss. § IV.