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— (perchè, santo Dio, tutta Roma sapeva che quella bambina.... quella bambina....) si alzò, come sospinto da una susta, soffiando per le nari uno sbuffo.
Sua Eccellenza si arrestò e si volse a guardarlo.
Subito il cav. Cao contrasse la faccia, come per un fitto spasimo improvviso, e disse, sorridendo e stropicciandosi con una mano la gamba:
— Crampo, Eccellenza....
— Già.... lei aspettava.... Scusi tanto, cavaliere. M’ero distratto.... Basta per questa sera, eh? Lei sarà stanco; io non mi sento disposto. Saranno le undici, è vero?
— Mezzanotte, Eccellenza! Ecco qua: le dodici e dieci....
— Ah sì? E.... e questo teatro, dunque, quando finisce?
— Che teatro, Eccellenza?
— Ma, non so; il Costanzi, credo. Dico per.... per quella bambina.... Sente come strilla? Non si vuol quietare. Forse, se ci fosse la mamma.......
— Vuole che passi dal Costanzi, ad avvertire?
— No, no, grazie.... Tanto, adesso, poco potrà tardare. Piuttosto, guardi: avrei bisogno urgente di parlare con l’Auriti.
— Col cav. Giulio?
— Sì. È con mia moglie. Può darsi che non venga su, alla fine del teatro. Mi farebbe un gran piacere, se lo avvertisse.
— Di venir su? Vado subito, Eccellenza.
— Grazie. Buona notte, cavaliere. A domani.
Il cav. Cao s’inchinò profondamente, tirando per il naso aria aria aria; appena varcata la soglia, la buttò fuori con un versaccio di rabbia, che mutò subito però in un sorriso grazioso alla vista del cameriere in livrea, che gli si faceva innanzi.