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accennando di voler resistere, s’era veduta prima assaltare alla baionetta; poi, a fucilate, per avere agitato in aria le zappe a intimorir gli assalitori. Dodici, i morti; più di cincquanta i feriti: tra questi, alcuni bambini, uno de’ quali crivellato da ben sette bajonettate.
Questo particolare orrendo si era rappresentato innanzi a gli occhi di Francesco D’Atri così vivo, che da tre giorni, pur tra tante cure e tanto tumulto di pensieri, di tratto in tratto egli tornava a pensarci con raccapriccio. Perchè la ferocia di quel soldato, accanita sul corpo di un bambino innocente, gli pareva l’espressione più precisa del tempo: la vedeva in tutti, quella stessa ferocia, e n’era sbalordito. Non più rispetto, nè carità per le cose più sacre; una furia cieca, una rabbia d’odio, un’ebbrezza di dissolvimento, una selvaggia voluttà di basse vendette. S’aspettava d’esser preso per il petto da un forsennato qualunque, per dar conto di tutti gli errori suoi, antichi e nuovi. Errori? E chi non ne aveva commessi? Ma era un momento, quello, che anche i più lievi, quelli a cui in altro tempo si era soliti di passar sopra, saltavano a gli occhi di tutti, pigliavan dalla sinistra luce di quei giorni un certo ispido rilievo, un certo color misterioso, che subito aizzavan la smania di frugar sotto, per la soddisfazione atroce o la feroce consolazione di scoprire altre più gravi magagne nascoste. Il coraggio più difficile, quello de la pubblica accusa, legato da ciascuno e persuaso con tanti argomenti di saggezza a non rompere 1 freni della pazienza, ora che tutti si trovavan d’accordo, si era svincolato, sferrato da tutti i ritegni, da tutti i riguardi sociali; era diventato tracotanza inaudita; e nessuna coscienza poteva più sentirsi tranquilla e sicura.