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colto dallo specchio con atteggiamento di scherno e gli avrebbe domandato se fuori faceva bel tempo, se c’era la luna, se qualche lampada elettrica non si fosse per caso stizzita lungo la via, o se San Paolo, stanco di stare in piedi, non si fosse messo a sedere su la colonna Antonina; così forte aveva questa impressione, che tornava indietro, per lasciar fuori la propria persona e non presentarla a quella derisione. Eccola, eccola lì, la sua bella persona, ben curata, ben lisciata, azzimata.... chi se la voleva prendere a quell’ora di notte? Si fermava un po’ per sentire intorno a sè il silenzio notturno; gli pareva che questo silenzio si profondasse nel tempo, nel passato di Roma, e diventasse terribile. Un brivido lo scoteva. Gravava quella notte su una città di mille e mille anni, per cui egli passava, ombra vana, minima, che un lieve soffio avrebbe spazzata via.
Da questi momenti non rari lo richiamava in sè ogni volta, accorrendo da Palermo senza invito e sempre in punto un amico, forse il solo ch’egli avesse sincero: Lino Apes, direttore della Nuova Età: Socrate, com’egli lo chiamava. E di Socrate veramente Lino Apes aveva l’umore e la bruttezza: alto, tutto collo e senza spalle, con le braccia che gli scivolavano fin quasi ai ginocchi, la fronte sfuggente, il naso schiacciato, e certi occhi vivi e acuti, che gli ridevano prima della bocca, quasi nascosti, quelli dalle folte sopracciglia spioventi, questa dagli ispidi baffi.
Poverissimo, con incredibili stenti superati allegramente, s’era mantenuto da sè a gli studii, fino a laurearsi in lettere e filosofia; senz’ambizioni di sorta, si adattava a insegnare a suo modo in un ginnasio inferiore, con molto godimento dei ragazzi,