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Udì per le tre stanze in fila la voce del vecchio cameriere, che ripeteva:
— Di qua, di qua, mi segua.
Posò l’album e guardò in direzione dell’uscio.
— Oh! Verònica....
— Caro Titta, — rispose Guido Verònica, arrestandosi in mezzo al salone.
Si tolse le lenti per pulirle col fazzoletto pronto nell’altra mano; strizzò gli occhi ovati, foremente miopi, e con l’indice e il pollice della mano tozza si stropicciò il naso maltrattato dal continuo pinzar delle lenti; poi si appressò per sedere su la poltrona di fronte al Mattina; ma questi, alzandosi, lo prese sotto il braccio e gli disse piano:
— Aspetta, ti voglio far vedere....
E lo condusse innanzi alla mensola per mostrargli tutti quei mucchietti di polviglio.
Il Verònica, non comprendendo che cosa dovesse guardare, miope com’era, si chinò fin quasi a toccar col naso il piano della mensola.
— Tarli? — disse poi, ma senza farci caso, anzi guardando freddamente il Mattina, come per domandargli perchè glieli avesse mostrati: e andò a seder su la poltrona.
— Tu quoque? — domandò allora il Mattina, rimasto male e volendo dissimular la stizza. — Come va?
— Non so di che si tratti, — gli rispose il Verònica con l’aria di chi voglia nascondere un segreto.
— Oh, neanch’io, — s’affrettò a soggiungere il Mattina con indifferenza.
E posò gli occhi senza sguardo su la fronte del Verònica sconciata da tre lunghi raffrigni in vario senso: ferite riportate in duello.
— Torni da Roma?
— No. Da Palermo.