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110Quali al tuo Melibeo piacean, di linci.
Or vieni, e non temer, Titiro mio,
Delle nostre foreste, e gli alti pini
Dalle cime commosse, e tengon fede
E gli arbusti, e le quercie, e fin le ghiande.
115No, quivi insidie, e quivi ingiurie, quante
Tu credi, non vi sono: a me che t’amo
Non vuoi fidar te stesso? I regni miei
Forse ti sembran vili? Eppure a sdegno
Non ebber d’abitar quest’antri cavi
120Gli Dei medesmi. Il dica l’Achillèo
Chirone, e, anch’ei pastore, il dica Apollo.
Mopso, folleggi? Non sai tu, che Jola
È cortese e gentil; ma non l’assente.
Ei sa che sono rustici i tuoi doni,
125E de’ suoi tabernacoli per ora
Il tuo speco non puoi dir più sicuro,
Tal che sen possa ricrear. Ma quale
Smania ti prese nella mente accesa?
Qual nuova ne’ tuoi piè brama destossi?
130Vede un garzon la vergine e l’ammira,
Il fanciullo vagheggia l’augelletto,
L’augelletto le selve, e le foreste
Il tiepido spirar di primavera;
Così, Mopso, te sol Titiro ammira,
135E dalla meraviglia amor germoglia.
Noi dispregiar; del Muson Frigio all’acque
Tua sete spegnerò; nè tu il conosci,