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Si divertivano, come me, a guardarsi lungamente alla spera, e a far le boccacce, delle boccacce orribili, che mi facevano poi rompere in un disperato pianto d’angoscia e di paura? La casa del mio nonno materno sorgeva in faccia al Conservatorio e vi si accedeva per mezzo di una scaletta esterna, di legno, imporrato dagli anni e dall’umidità. Non ho mai capito la povertà di quella casa, messa a confronto con i lauti guadagni del nonno.

Amministratore dei beni delle monache e fattore di tutti i poderi da esse recati in dote al monastero di San Niccolò, Ignazio Rinaldi poteva passare, senza timore di essere contradetto, per uno dei signorotti più facoltosi di Prato. La tavola ricca e squisita, i tributi in frutta, vini, latticini, pollame, caccia, carni d’ogni specie che gli venivano continuamente offerti dai numerosi contadini suoi dipendenti, lo spirito arguto e festevole del nonno, la sua vasta coltura classica, avevano resa la sua casa modesta un luogo di gradito ritrovo per tutto quanto d’intellettuale si trovasse allora in Prato o fosse di passaggio nella piccola industriosa città.

Frati, preti, predicatori, musicisti, ricchi agricoltori, si raccoglievano volentieri intorno alla grande tavola rettangolare della saletta del primo piano, ove dalla mia bellissima mamma e dalle sue sorelle, aiutate da qualche contadina, venivano servite delle vivande squisite, quantunque molto semplicemente presentate. A quei tempi, in Toscana, la chincaglieria nella cucina era un’arte press’a poco ignorata: e un bel pezzo di vitella in umido, fiancheggiato da rigaglie di pollo o da spinaci, pareva il nec-plus-ultra delle accortezze gastronomiche.