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in opera da poco tempo una di quelle macchine da taglio di cui si servono i librai per pareggiare i margini dei volumi stampati. Ettore, incuriosito, si avvicinò alla macchina e vi pose sopra sbadatamente la mano, senza accorgersi che la larga lama si abbassava: e così ebbe l’anulare quasi interamente reciso alla seconda falange.

I lettori si possono immaginare le grida, la confusione, lo spavento di tutti. Ma Ettore, vinta la prima impressione del dolore che dovè certo essere spasmodico, dopo essersi ravvolta la mano ferita nel fazzoletto, ed aver caldamente raccomandato agli amici di non raccontar nulla dell’accaduto a sua madre, si fece accompagnare all’ospedale di Santa Maria Nuova. Ma appena il medico ebbe veduta la ferita, disse che era necessaria l’amputazione totale del dito.

L’operazione si compiè benissimo, ed Ettore non mandò nemmeno un grido: anzi, appena finita la fa-


    con le belle storie d’arte e di poesia le giovani scolare che gli vogliono bene. Io non lo vedo, non lo odo più. Morì in un giorno malinconico di questo lungo inverno, mentre io, ignara e malinconica, lo ricordavo con tenerezza. Morì, ed anche a lui ho composto la tomba qui, in questa sala malinconica, piena di tante memorie.
    E la viola scempia mi ricorda ancora un lieto pomeriggio estivo, una fragile carrozzella volante sul polverone della strada maestra, un giardino dorato dagli splendori del tramonto, e l’accoglienza onesta e cordiale che ci fece quel valentuomo.
    Mia povera viola, tacete: il sole torna a sorridere sui vecchi mobili e sulle brune scansìe: il tiepido cantuccio mi invita, il romanzo testè cominciato mi tenta..... e i morti, non vedete? i morti sono tornati alle loro tombe biancheggianti sotto la nuova luce. Tacete, tacete dunque, ricordi miei. I morti sono passati.