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slanci, aprendogli le colonne della mia rivista. Egli cominciò la carriera con un focoso articolo «sull’inutilità della letteratura infantile». Aveva appena diciotto anni. Quell’articolo, a dire il vero, non costituiva precisamente un complimento per me; ma io, attratta dall’originalità e bizzarria del caso lasciai fare. A quell’articolo ne successero altri; due, tre, cinque, dieci, venti, tutti vibranti, tatti focosi, tutti giovani, tutti improntati a un disprezzo sconfinato per qualunque convenzione della società umana. Io pubblicavo nella Cordelia quelli che mi parevano confacersi al carattere del mio giornale, e scartavo regolamento tutti gli altri, con grande disperazione del giovinetto sociologo, che dichiarava allora — con grande umiltà — di essere una bestia. Un giorno, mentre eravamo in viaggio, mi domandò a bruciapelo se io lo avessi creduto capace di scrivere una bella novella. Gli risposi che non lo credevo sufficientemente artista. Per ismentirmi subito, egli afferrò un piccolo fascio di cartelline, e scrisse, tutta di getto, senza un pentimento o una cancellatura, una splendida novella, ch’io non potei finir di leggere, tanto la commozione mi stringeva la gola. Allora cominciarono a fioccar le novelle; novelle ardite, originali, molto dense di pensiero, qualche volta oscure; ma che rivelavano sempre un ingegno strano e potente. Per quelle novelle, che fra poco vedranno la luce in volume, i più chiari scrittori d’Italia ebbero parole di viva lode, ed anche ultimamente uno dei grandi artisti d’Italia, Antonio Fogazzaro, me ne parlò con compiacenza.

Questa straordinaria versatilità nell’ingegno del mio Manfredo sì è accentuata con gli anni, e glie ne hanno

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