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Il babbo dava il consenso e cominciavano i preparativi per mettermi insieme il fagotto.

In casa, visto e considerato che non c’era l’abitudine dei viaggi, non c’erano valigie nè borse, ma solo un trespolo di baule color cioccolata, su cui era visibilissimo, malgrado venti e più anni di vita, un cartello giallastro con questo indirizzo: «Signor Leopoldo Baccini, Corfù» indirizzo cagione d’infinite compiacenze alla mamma che non mancava mai di dire anche se l’argomento non lo richiedeva: Quando «Poldo» dovè andare in Grecia...

Del baule, dunque, non c’era da discorrerne. Eppoi con che cosa si sarebbe dovuto riempire? Si cominciava dal passare in rassegna le mie camicine. Due, erano buone; ma una aveva un pezzo dietro; la quarta era lisa nello stesso punto. Ma con un po’ di riguardo, potevano passare, sopratutto — e qui la mamma prendeva un aspetto triste e severo ad un tempo — sopratutto se io avessi perso quel benedetto vizio di far le capriole sul letto, come i ragazzacci.

A sottanine stavo bene. Vestiti, tre bastavano. Quello di giaconetta, a palme, per le feste: quello di gingas1 per quando la zia Annina m’avesse portato nei giorni di lavoro a girare una porta2, suprema delizia dei pratesi; quello a mille righe, di bordatino, per la casa.

  1. Il gingas era un tessuto di cotone, per lo più in colori chiari, corrispondente al cambrik, al percalle e anche a certi modernissimi e fini satins.
  2. Escir, per esempio, da una barriera e rientrare in città da un’altra.