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corsi all’uscio: stavo già per aprirlo, quando mi sentii afferrare le spalle da due mani robuste che mi fecero rivoltar rapidamente su me stessa.

— Non voglio che mi tocchi! — strillai e cercai di liberarmi da quella stretta per fuggire; ma negli sforzi che facevo per svincolarmi, battei il viso contro il suo; lo guardai impaurita, credendo di avergli fatto male: egli pure mi guardò e restammo un momento fermi, con gli occhi fissi l’uno nell’altro.

Provai una strana sensazione di cui lì per lì non mi seppi render conto e abbassai il capo smarrita. Egli mi respinse leggermente lasciandomi libera. Quando rialzai gli occhi lo vidi in piedi, vicino a me che mi guardava ancora, ma senza collera.

— Posso uscire? — balbettai.

Fece segno di sì e io mi allontanai lentamente, col cuore in sussulto, con le gambe troncate.

Prima di uscire di scuola, tornai nella stanza del lavoro per prendervi un libro: quella stanza mi pareva un’altra; c’era più luce, più allegria, più vita. Non pioveva più e i vetri del finestrone scintillavano al sole.

Il giorno dopo il direttore scrisse una lunga lettera al babbo per dirgli che ero oramai troppo grandina per rimanere nel suo Istituto e che era ormai tempo di avviarmi a studi più serii. A me inviò in dono un «Dante» illustrato (quello stesso che egli leggeva quel giorno), e un suo bel lavoro sulle origini della Casa di Savoia. Sulla copertina c’era scritto: «Alla «signorina» Ida Baccini che col fervido ingegno e la gentilezza degli affetti ha onorato la scuola e il maestro».

Anima veramente onesta ed alta, vale!