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IDILLIO VII 59

sia pur Filíno, sia chi altri si voglia il fanciullo.
Ché, se fai questo, o Pane mio caro, giammai non avvenga
che con le squille a sferzare ti vengan d’Arcadia i ragazzi
omeri e fianchi, allorché di carne ne piglin pochina.
Ma se dicessi di no, punzecchiato per tutte le membra
debba grattarti con l’unghie, dormir debba sopra le ortiche,
a mezzo il verno possa trovarti sui monti d’Edóne,
accanto all’Ebro, il fiume che all’Orsa vicino fluisce,
e ne l’estrema Etiopia l’estate trascorrere, sotto
l’alpe dei Blemi, donde non è piú visibile il Nilo.

E voi, lasciati i rivi d’Ièti soavi e di Bibli,
e la dimora eccelsa dell’aurea Dïona, l’Ecúnte,
a rubiconde mele voi simili, o Amori, colpite
con le saette vostre, colpite il vezzoso Filíno,
perché non ha pietà, scellerato, de l’ospite mio:
ch’egli maturo è piú d’una pera; e le femmine tutte:
«Ahimè — dicono — il tuo bel fiore, Filíno, appassisce!»

Su la sua soglia, Arato, piú mai non staremo a vegliare,
piú non consumeremo le scarpe; ed il gallo, al mattino
col suo chicchirichí chiami un altro al molesto sopore.
Molone solo, o caro, si metta al cimento, e ci crepi;
e noi goder si possa la pace; e una vecchia ci assista
che da noi lunge sperda, sputando, ogni mala fattura.

Cosí dissi. E il bastone da lepri ei m’offerse, ridendo,
come già pria, dolcemente, presente ospitai de le Muse.
E quindi, egli a sinistra torcendo, batteva la strada
che mena a Pissa; ed io, di Frassídamo verso la villa,
con Èucrito mi mossi, e Amíntico il bello. E, qui giunti,
sovra profondi letti giacemmo di morbidi giunchi,
godemmo sopra tralci di vite di fresco recisi.