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IDILLIO XXV 187

trovai, lo sradicai, con esse le radiche fitte.
Ed ecco, appena al luogo pervenni dov’era il leone,
súbito presi l’arco, la corda di nervo ritorto
strinsi all’anello in cima, vi posi una freccia letale.
E gli occhi tutto in giro volgendo, cercavo la fiera,
se, prima ch’ella me vedesse, potessi vederla.
Giunto era il giorno a mezzo; né io, per guardar che facessi,
scorgere impronta alcuna potevo, né udire ruggiti.
Né c’era uomo veruno che ai bovi attendesse, ai lavori
sui seminati solchi, da volgergli alcuna dimanda:
ché nelle stalle tutti chiudeva lo scialbo terrore.
Ma i piedi io non trattenni, pel bosco selvoso, alla cerca,
prima d’averlo visto, d’averne saggiate le forze.
Alla sua tana, prima del vespero, ei dunque tornava,
ch’era di carne e di sangue pasciuto; e bruttata di sangue
l’irta criniera aveva, le costole, l’orrido ceffo;
e con la lingua, attorno l’andava lambendo alle guance.
Io nelle macchie ombrose, sí come lo vidi, mi ascosi,
ed aspettai, nel sentiero selvoso, che presso giungesse,
e lo colpii, mentr’egli giungeva, nel fianco sinistro;
e invan: ché il dardo aguzzo non valse a forare la pelle,
e su la pallida erba piombò di rimbalzo. E la fiera,
velocemente alzò dal suolo la testa rossastra,
tutta stupita; e corse d’attorno con gli occhi, cercando;
e spalancava la bocca, mostrava le zanne voraci.
E allora un nuovo dardo dal nervo dell’arco scagliai,
tutto crucciato pel primo, che invano di man m’era uscito;
e lo colpii nel mezzo del petto, ove ha sede il polmone;
ma non potè la freccia dogliosa neppur questa volta
passare il cuoio; e vana dinanzi alle zampe gli cadde.
Ond’io, pieno di cruccio, la corda tiravo la terza
volta; ma, roteando le orrende pupille, la fiera
mi vide; e si batté, sui pòpliti, in giro la coda