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VIII | PREFAZIONE |
nei giudizi che comunemente si esprimono intorno ai suoi riflessi su la poesia del tempo. E perché questo dissenso implica una diversa posizione di Teocrito rispetto al suo momento letterario, credo utile specificarne le ragioni, mentre mi accingo a presentare un poeta la cui opera è certo chiara e perspicua, bella di una bellezza da apprezzare senza riferimenti eruditi, ma pure macchiata qua e là da mende su la cui essenza è necessario formarci un giusto criterio.
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Se consideriamo l’arte greca nella sua grande linea di sviluppo, senza sviarci dietro questa o quella deviazione sporadica, vediamo facilmente che essa, da Omero, o, meglio, dalla ripresa postomerica1, sino al gran momento attico, è tutta una aspirazione lenta, continua, possente, verso la perfezione, la purezza, la bellezza, intesa come trascendenza dal particolare al generale, dal contingente all’essenziale.
La forma piú chiara di questa aspirazione è forse nella scultura di Fidia. Fidia non ha mai cercato di esprimere questo o quel modello individuo, né il prototipo di questa o quella razza, né dell’una casta o dell’altra2; bensí, raccogliendo nel fuoco possente del suo spirito le innumerabili creature che cadevano sotto le sue pupille, creava, con sovrumana energia sintetica, forme umane insieme e non umane. Le molteplici caratteristiche di tutte le stirpi e di tutte le età venivano a confluire e a perdersi nelle sue statue. Perfino le infinite espressioni dei sentimenti e delle passioni vi si annullavano in una radiosa serenità. E l’effetto etico ne era infinito. Diceva un antico autore: