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rammarico. E si capisce: egli si è proposto un fine preciso e, in certo senso, risolvibile perfettamente. Di fronte a un dramma egli si trova come di fronte a un’ostrica; e quando ne ha cavata la polpa, può contemplare con soddisfazione di buon gustaio una conchiglia pulita.

Mentre Martini, che dalla sua formula è portato a esaminar molto più la realizzazione, che il tema, si trova sempre in uno stato d’animo di angosciosa insoddisfazione. Per quanto si consumi a ridarci quel nebbioso e soavissimo senso di gioia che ci riempie dinnanzi a un dramma poetico, egli non può naturalmente appagarsi mai; perchè la poesia è appunto nella realizzazione di un’opera quella parte misteriosa e intangibile, che si disfa soltanto a essere esaminata e riprodotta in altre parole. Gli stessi pezzi, staccati dall’opera, si impoveriscono, si alternano; e il lavoro del critico è come quello di un uomo, che volesse trasportar con un secchio il colore azzurro del mare.

•••

Ormai il pubblico conosce gli ideali drammatici di Tilgher e di Martini; e, a lume di naso, può immaginarsi che cosa piacerà all’uno e all’altro. Se tutti i critici avessero la loro formula, le stroncature e le lodi troverebbero, in quella sistemazione, un peso doppio. E per quanto oggi non si possa più rinunciare a un certo benevolo eclettismo, non stupirà che un Molnàr piaccia più profondamente a Martini che a Tilgher, e un Pirandello a Tilgher che a Maritni; per quanto le stesse opere possano piacere ai due critici per ragioni diverse — il che dimostra, che per essere regolata da qualche legge, la critica non diverrebbe nè insensibile, nè settaria.

Leo Ferrero.


FUCHS

I.

Riteatralizzare il teatro: è il motto di Georg Fuchs, che ha scritto su questo tema un libro in cui è questione del pubblico, del dramma, dell’attore e della messinscena.

L’autore assumendo che le scene moderne sotto le stesse che che convenivano alla cultura del XVI, XVII e XVIII secolo, confida nei tempi nuovi per una grande rivoluzione del teatro.

L’abbandono dei modi antichi, volti alla imitazione delle feste di corte e alla gara con la natura, è ormai imposto dalla creazione di una scenografia semplice.

Wagner stesso, il quale per le sue opere pensò a Böeklin, meritò il giudizio che questi espresse di lui: non intendere nulla di pittura.

Böeklin, infatti, come tutti i pittori veramente artisti, stimava insensato pretendere una impressione giusta con una illuminazione falsa, e false prospettive. In uno scenario simile, l’attore paragonato alle montagne, agli alberi, alle cose che lo circondano, dovrebbe figurare come un punto. La ribalta, poi, rischiara ogni cosa d’un tono crudo e uniforme, e i dettagli che sulla tela dovrebbero apparire a trenta o a cinquanta metri sono percorsi dalla luce come se lo spettatore li vedesse ad un metro. E’ tutto qua il naturalismo e la cura della verità «reale»?

Questo naturalismo che ha reso il pubblico più esigente in quanto al «naturale» è riuscito solo a complicare le combinazioni sceniche, senza pervenire mai all’effetto desiderato; pur indicandosi, involontariamente, la necessità di una riforma sostanziate della scena «stereoscopica».

Il carattere maggiore della nostra epoca è un realismo smaccato confuso alle gale dei tempi cortigianeschi.

La scuola di Meiningen aveva esposto un metodo che concedeva alla borghesia regnante di considerare il dramma come la copia della realtà, storica o attuale. Vi sono ragioni per chiamare naturalista la realtà moderna e altrettante per la verità storica; è lo stesso copiare una chiesa romana o un salone moderno, un ornamento regale o un camiciotto da meccanico. Il naturalismo moderno tuttavia si tiene alla realtà moderna.

II.

Impossibilità di vivere l’opera d’arte della scena moderna: donde, il bisogno di una nuova concezione del teatro.

L’unità, cui tendono le ricerche attuali, esisteva al tempo di Shakespeare e nei vecchi teatri italiani e francesi, dove un pubblico scelto era ammesso accanto ai comici; e anche oggi gli attori giapponesi, talvolta, passano direttamente dalla sala alla scena.

Perchè dramma esista possono abolirsi le parole e gli scenari, bastando il moto ritmico del corpo; però il dramma dal concorso delle altre arti è fatto più dovizioso.

Presso i greci si dava un’importanza particolare all’arte della ginnastica ch’era un tramite fra le arti plastiche e la poesia.

«Non è concesso immaginare l’arte greca senza la ginnastica greca, dice Furteraugler. L’arte plastica e il dramma, senza la ginnastica e la danza, erano cose imperfette e limitate». Converrebbe fornire egualmente il popolo di una conoscenza della musica e della ginnastica.

Platone, infatti, stimava essere, questa, sorella della musica e i greci ammiravano compiutamente solo il pentaeta, l’uomo delle cinque gare.

L’arte greca disvela a qual grado di perfezione possa pervenire un popolo con lo studio di queste arti. E’, dunque, per noi questione di far germinare dal connubio del dramma e delle arti un’arte nuova: quella della scena, in cui gli elementi restino fedeli alle proprie leggi organiche senza ostacolarsi a vicenda.

Il teatro prossimo sarà dunque, posto sotto la guardia della cultura moderna, rinnovando le vecchie concezioni per cui gli antichi eran tratti a risolvere i problemi della scena secondo le norme proprie della loro civiltà.

Noi terremo, com’è giusto, altro modo.

La nostra generazione si desta da lungo sopore; lo slancio brusco della civiltà del macchinismo ha demolito le antiche, solidamente costrutte. Il vigore delle razze si è disperso nei grandi concorsi d’uomini divelti dal suolo della patria: gli antichi vincoli si sono infranti senza che nuovi se ne siano stabiliti. Divenuta intollerabile la specie di questa vita senza forme, si è data presto una maschera a siffatta bruttezza, stando, com’è usanza dei villani rimpannucciati all’imitazione di quegli aspetti del passato fra i quali era tramontata la miglior parte delle vecchie civiltà. Ma accanto a questa epoca di princisbecco è per affermarsi una società nuova, di uomini della nuova generazione troppo saldi per lasciarsi travolgere e sminuzzare dai congegni livellatori del secolo delle macchine. Tutti quelli che partecipano a questo movimento costituiscono la società nuova che si sente in dissidio sostanziale con il «gran pubblico» e la sua pseudo civiltà di pidocchi riuniti.

A questa società è commessa la fondazione del teatro nuovo, cui converrà l’architettura dell’anfiteatro unanime.

III.

Secondo Georg Fuchs, la scena in rilievo sarà quella dell'avvenire.

E’ un fatto: che gli attori, quasi per comunicare al pubblico la forza drammatica di che sono invasi, hanno tendenza di farsi alla ribalta; per cui si direbbe che cerchino di porsi «in rilievo» secondo esprime la lettera. Contenendo questo slancio, è recisa la comunione dell’attore con il pubblico.

Sulla scena in profondità, i comici, tenuti in una luce troppo viva e con le maschere contratte, non segnano per alcuna bellezza il furore che li trae alla ribalta, la quale nella scena in rilievo e, invece, il limite dove si celebra la transustanzione del movimento corporeo dell’attore in movimento spirituale degli ascoltatori.

Si potrebbe osservare che occorrono scene profonde per i lavori nei quali intervengono le folle. Ma che cosa è una folla? Forse dieci, venti, cinquanta persone? Una folla è necessaria ad una scena profonda perchè gli spettatori, dai palchi fino agli ultimi, potrebbero scorgere i vuoti con effetto ridicolo. Ma in un anfiteatro, basta un’impressione di folla, disponendo allo scopo esigue file di comparse: non si riesce in pittura a rappresentare con dodici figure un esercito in rotta? In tutto sarà questione di raggiungere il fine con i mezzi più semplici.

I pittori faranno il loro mestiere, senza voler creare l’illusione della profondità e rendere le tre dimensioni: se ne staranno al problema delle linee e dei piani.

Nel teatro nuovo non saranno consentite le apparizioni dei trapassati e degli iddi, ch’è pure gran stoltezza voler stupire i moderni con invenzioni grossolane. Come l’ombra di Cesare, in Skakespeare, è il simbolo del più nobile e grande uomo: basterà far comparire un personaggio che trascenda per nobili e maestosi segni la realtà.

Veramente non si potrebbero meglio indicare gli spiriti che, per essere perfetti e nudi d’attributi terreni, non è concesso rappresentare, nella vera essenza, con processi alla carlona e con figure umane.

Dal teatro nuovo saranno, pure, bandite le mistificazioni dell’arte che, copiando la realtà, pretende al naturalismo. Non si tratta, piuttosto, di una nuova e diversa realtà? per così dire: di una seconda realtà? Forse il pubblico scorda, per questo, di assistere ad una rappresentazione? E, poi, rappresentazione non vale trasposizione?

Il teatro d’ogni tempo fu diletto fastoso o imitazione della vita cotidiana; tutto induce a credere che i teatri delle grandi città esauriranno la barbarie del teatro convenzionale e che un teatro borghese rappresenterà con questo opere buone. Non escludiamo il dramma intimamente legato al teatro e fuor di questo ambito inconcepibile. Esso deve evaderne, esprimersi come la statua dal blocco di marmo; è in questo intendimento che noi affermiamo dover il dramma essere «teatrale». Non lo è stato fin’ora, per il livello poco elevato della nostra cultura; ma possiamo confidare che, stando alla pari della cultura artistica moderna, essa sarò, nuovamente, «teatrale».

ERLER

I.

Georg Fuchs e Fritz Erler.

Di questi conviene, soprattutto, notare la realizzazione di qualche idea nuova, al Künstler Theater.

Il punto di partenza dei miei sforzi fu prima d’ogni altro far balzar nitida e distinta la figura del personaggio. Tutto l’interesse dello spettacolo deve concentrarsi nell’attore, non in quel deserto di tela dipinta che lo circonda.

Perciò è necessario intendere il personaggio creato dal poeta e segnarne la maschera con la forma, il colore, l’aspetto, gli atteggiamenti più acconci all’aspressione del carattere. Il compito maggiore dello scenografo è, quasi, l’imitazione, nel senso spirituale del cogliere ed interpretare la personalità dello scrittore. In verità, l’autore dell’opera non presiede soltanto al ritmo delle parole; ma crea, anche senza notarli, i colori e le forme della scena, i volti e i gesti dei comici.

Discende da questo: che ogni dramma cerca la sua espressione particolare e che tanti sistemi ci sono quante opere esistono.

Fritz Erler, escludendo le ricerche del realismo, limita la messinscena a indicazioni essenziali, le più proprie a esercitare la fantasia degli spettatori, i quali sono sempre indotti a collaborare con lo scenografo e, talvolta, ne determinano perfino l’opera.

Infatti, noi immaginiamo più che vediamo e la natura stessa e inferiore ai nostri sogni poi che li limita nel modo che li precisa. A teatro importa principalmente suggerire qualche immagine, che ognuno completi secondo il proprio intelletto.

Lo scenografo, quindi, conterrà le sue realizzazioni nei limiti di un’atmosfera che abbia virtù di esprimere un ambiente il quale si sviluppi compiutamente solo nella fantasia del pubblico.

Il compito della scenografia potrebbe, forse, concludersi in tre mansioni:

Creare le maschere proprie dei personaggi.

Indicare l’atmosfera psicologica in cui è riflessa l’azione.

Stabilire l’unità del dramma con la folla.

A migliore intendimento gioverà un saggio di messinscena del «Faust».

II.

Per tutto il «Faust» sono occorsi soltanto due fondali dipinti, molto semplici. Il resto è stato fornito dall’illuminazione, con un fondale bianco e l’altro nero.

La scena intermedia era composta dalle due quinte del teatro corpose e mobili, che avevano l’aspetto di due pareti di pietra grigia e che potevano servire a tutte le scene dell’opera, figurando volta a volta la prigione, la cantina, la casa, la chiesa: il colore uniforme dava unità d’impressione. Questo legame armonioso e la rapidità dei mutamenti non frammentavano l’azione; anzi: quasi come in un sogno le scene si succedevano in guisa da sembrare che variasse il luogo, restando sempre vicino al precedente. Il palco costituiva una zona neutra. L’architettura era di un’epoca imprecisata e il proscenio identico per la chiesa, la camera e il passeggio.

Furono scelti i costumi del XX secolo, perchè questa foggia dalle lunghe pieghe contribuisce all’effetto distante ed esclude la maglia ardente che procura all’attore un aspetto di strano ballerino.

Per il costume e gli accessori, conviene la ricerca dell’effetto a distanza. Troppo spesso si adoperano stoffe minutamente piegate, meravigliose di dettagli, le quali da lungi paion soltanto saggi inesperti d’opposti colori troppo sfumati e che si risolvono in un grigio scialbo; accessorii che sembrati giocattoli; acconciature che si distinguono a pena con l’occhialino. Così, l’arcolaio di Margherita era grande, non perchè a questa buona borghese convenisse per l’aspetto una macchina orgogliosa, ma per un’altra ragione. Margherita deve comparire sola in questa scena. E’ necessario soltanto mostrarla all’arcolaio e le minuterie d’ammobigliamento della stanza non convengono alla situazione, tenuta nei limiti di un’effusione lirica, di un’apparizione appena reale. Questo tipo di grande arcolaio permette all’attrice pochi gesti e vistosi, offrendole, in quanto all’ottica, un appoggio più considerevole sulla scena vuota e, limitando lo spazio, proietta l’ombra sui piani più distanti. L’arcolaio, che concorre direttamente all’azione, non poteva essere un giocattolo, sibbene uno strumento facile a riconoscersi subito nella luce incerta.

Edoardo Persico.


IL BARETTI

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