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IL BARETTI

QUINDICINALE EDITORE PIERO GOBETTI Torino VIA XX SETTEMBRE, 60

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Anno II — N. 2 — 1 Febbraio 1925


SOMMARIO: G. Debenedetti: Cauto omaggio a Radiguet. — A. Grande: Ritratti (L’ineffabile - Il Gaudente). — L. Ferrero: Il muro trasparente (studio su J.J. Bernard e Paul Géraldy). — Oreste: Lettera d’occasione. — R. Franchi: La pittura futurista — F. Bernardelli: I nostri meastri.


CAUTO OMAGGIO A RADIGUET

Il più curioso dei suoi romanzi, anzi — a dirittura — il romanzo dei suoi romanzi. Raymond Radiguet non lo poteva scrivere, un romanzo necessariamente postumo che trovava un adeguato scioglimento solo a patto che morisse il protagonista: cioè: il medesimo Raymond Radiguet. In compenso, intrigante compenso, sono rimaste al critico di buona volontà poche schede di appunti (le poche più urgenti, pubblicate come anticipo del volume che ci è promesso e che le dovrà raccogliere tutte) ed alcune, poche anch’esse, testimonianze e notizie scritte da Jean Cocteau, biografo di lui e, a quel che pare, esecutore testamentario della sua eredità spirituale. Quanto basta, insomma, per metterci in tentazione di ricostruire per conto nostro quel romanzo che non fu scritto — ed a convincerci poi subito che non potremo mai riuscirvi in tal modo che del tutto ci appaghi. Proprio come succede per taluni documenti vietati che, dopo una rapida visione che ce ne sia stata offerta, vengono minutamente lacerati: e allora comincia per noi, con una curiosità complicata di risentimento, il faticoso gioco di riconnettere, provando ad una ad una le varie combinazioni, un frammento all’altro. Anche tornano a mente quegli avvisi pubblicitari che ricordiamo di aver veduti per i giornali: dove, sul nome dello specifico raccomandato, erano state tirate grosse sbarre di cancellatura, per irritare, ironicamente eludendo il nostro interesse.

Quanto sappiamo intorno a Radiguet, oramai lo sanno tutti i lettori italiani che tengono dietro alle cose di Francia: cioè, per non esagerare, il novanta per cento dei lettori italiani dotati di qualche gusto e alacrità di spirito. Radiguet scrisse, tra i sedici e i diciott’anni. Le Diable au corps, un romanzo che ha tutta l’aria di essere perfetto; e poi, tra i diciotto e i venti, un altro romanzo non meno lodevole: Le bal du Comte d’Orgel. Terminato il quale, distrusse tutte le schede e gli appunti che gli erano serviti per la composizione; e poi morì. Quello di distruggere le schede, di eliminare tutte le testimonianze che, a complemento dell’opera, sarebbero valse ad illuminarci sulla sua vera natura — doveva essere uno dei più caratteristici vezzi di Radiguet: un vezzo tale, però, che ci vieta di scoprire tutti gli altri; e che sembra scaturire da una necessità assai più grave, profonda e straordinaria di quel che ci lasci intendere, poniamo, Jacques de Lacretelle; il quale, rendendo omaggio al giovane romanziere anzi tempo scomparso, benignamente nota che: « il était réfléchi, s’effaçait volontiers et cherchait à ce contenter soi-même bien plus qu’à réussir » (Nouvelle Revue Française, 1 Gennaio 1924). La morte di Radiguet par quasi che sopraggiunga come il supremo coronamento, l’ultima e più definitiva espressione di quel vezzo.

Della sua vita, Radiguet sembra che si sia sbarazzato come di un problema di cui egli aveva suscitate tutte le incognite. A noi l’incarico di cercarne la soluzione. Le incognite principali da cui tutte le altre dipendono, sono i due romanzi che ci rimangono. Incognite tanto più difficili in quanto si presentano, in sé, quali risultati già del tutto chiari, che bisognerà accettare o respingere conte risultati, e non già revocare in posizione problematica. Rimane però, ineliminabile, il fatto che questi due romanzi, così sicuri e definitivi e, in apparenza, così distaccati dalla personalità pratica del loro autore, furono scritti da un adolescente: e la figura dell’autore adolescente vi preme intorno ancora più suggestiva ed indimenticabile per l’impegno che essa mette nell’eclissarsi. Radiguet che nega di essere precoce, che disconosce perfino in linea di principio i mostri di precocità, altro non fa, in fondo, che rifiutare i limiti e le strettezze della sua età: cioè non fa che protestare, egli adolescente, di non essere tale; vana protesta. E quando scrive: «Ces prodiges prematurés d’esprit qui deviennent, au bout de quelques années, des prodiges de bêtise... Tous les grands poètes ont ecrit à dix-sept ans. Les plus grands sont ceux qui parviennent à le faire oublier» — anzi che persuaderci della naturalezza della sua opera, viene ad insistere su quanto essa ha di prodigioso: e il suo contegno fa pensare, per molti aspetti, ad una volontà di insinuarsi ancora, con movenze segrete cd un poco sornione, nell’opera già compiuta: e, non che togliere la difficoltà di spiegare un autore troppo precoce, la ripropone nell’atto stesso con cui finge di scioglierla — appunto perchè la vuol sciogliere con un tratto che non ci può persuadere. Davvero che egli crea, dandosi l’aria di non volerlo, il romanzo dei suoi romanzi. Che sono, sì, romanzi di adolescenza scritti, ci vien detto, da un adolescente: ma la precisione, ma la chiarezza del metodo con cui sono scelti e tagliati gli episodi e la sapienza che si manifesta nel modo come sono controllate e definite talune situazioni morali (c’è perfino, nel Diable au corps un’acutissima analisi, attribuita al ragazzo che ne è protagonista, dei rapporti tra l’amore e il libertinaggio) fanno pensare ad uno sguardo gettato sui fatti dell’adolescenza col sussidio di tali riferimenti e riscontri e paragoni ai quali il chiuso mondo di un adolescente non saprebbe fornir materia. Non ritroviamo, nel tono di queste narrazioni, l’egoismo sentimentale, né la meraviglia confusa, nè l’attonimento di una memoria a cui si affaccino le ricordanze da un limbo situato di qua da ogni ordinata esperienza, nè — in una parola — alcuna di quelle qualità e modi per cui potremmo convenire con Cocteau e riconoscere con lui, in questi libri il prodigio di un animale, di una pianta che si raccontino. Tuttavia vien presto fatto di notare che una tale maturità di analisi e di giudizio e quella così squisita conoscenza delle passioni, se valgono a discernere e a discutere il contenuto morale e sentimentale dei singoli episodi, non giungono ad investire le complessive vicende dei romanzi, nè a recare i loro personaggi in una completa e coerente chiarezza. Sono, entrambi quei romanzi, delle piccole Educazioni sentimentali, vissute da eroi straordinariamente precoci e limitate ad avventure amorose: nè pervengono a quei bilanci finali, a quelle conclusioni per cui l’eroe di ogni Educazione sentimentale viene congedato, a fin di libro, con un certificato, più o meno lieto, più 0 meno triste, di educazione compiuta. E, insomma, siamo di fronte ad una conoscenza delle passioni che non arriva a diventare conoscenza di caratteri, ad una illuminata rassegna dì esperienze giovanili che non riesce a raccogliersi in una vera e propria Educazione sentimentale; ed ecco, riprodotto nell’aspetto dell’opera, il caso complicato di un adolescente che sa scrivere come un uomo, ma che rimane nondimeno un adolescente; il quale, nella risoluzione medesima di celarci il proprio stato di adolescente, non fa che denunziarsi.

Un romanzo, diceva Brunetière, è sopra tutto la narrazione di avvenimenti che potevano non succedere. Sta bene: purché poi l’autore che ha fatto succedere quegli avvenimenti ci permetta di verificarne la possibilità nel giro della nostra esperienza: la quale, sia pure in piccola misura, sia pure in certi suoi luoghi remoti che non siamo avvezzi a frequentare, contiene il germe di tutti i pensieri e delle situazioni e sviluppi morali in cui possa toccare ad un uomo di trovarsi. E nel memorabile: « Homo sum: nil humani alienum a me puto» — l’antico poeta rettamente constatava una delle fondamentali conseguenze del fatto che siamo uomini: cioè quella solidale comprensione dei sentimenti altrui che ce ne deriva. Talchè se di una testimonianza, offertaci come testimonianza di vita, non potremo, per nessuna via, venire a capo in maniera credibile e plausibile, incolperemo l’insufficienza di quella testimonianza prima di rassegnarci a limitare le nostre facoltà di partecipazione alla vita degli altri uomini. Radiguet, in quest’ordine di sentimenti, ci impegna ad una sorta di gara puntigliosa. I suoi romanzi ed il romanzo dei suoi romanzi ci lasciano, in fondo, una insoddisfazione amara, come di avere inseguito lungamente due linee non parallele che sempre ci annunziassero prossimo il loro punto di confluenza; e tuttavia ogni nostro ostinato inseguimento è riuscito infruttuoso. Abbiamo tra le mani un segreto e tutti gli elementi che ci abilitano, e ci invitano, a districarlo, ma frattanto sentiamo che qualcosa ci è tolto che sarebbe indispensabile a raggiungere la cercata chiarezza. Un ingegnoso gioco, e capzioso, di parvenze sotto cui si avverte, mal contenuto, il nostalgico richiamo di una verità che vi è rimasta sepolta e inesaudita, e ci ripugna, come troppo semplicistica, la scappatoia di considerare il problema come un trucco che valga, tutt’al più, per divertirci. Se trucco sarà, vorremo tuttavia averne scoperti i motivi. Gli eroi di Radiguet e Radiguet medesimo pare che si sollevino apposta per suscitare e, al tempo stesso, castigare la nostra affettuosa persuasione di poter scoprire, nel breve e geloso dizionario dei nostri monologhi segreti, un piccolo vocabolo che li faccia nostri: che li disponga, come persone oramai riconoscibili, nel cerchio delle nostre conoscenze c dei nostri incontri.

I romanzi psicologici a cui eravamo fin qui avvezzi, ci permettevano di creare, tra noi ed i loro eroi, una tal quale dimestichezza: sempre esisteva un piano in cui, fedeli a noi medesimi e liberi dalle più immediate suggestioni del libro, noi potevamo incontrare quegli eroi, vederli vivere in un mondo che era anche nostro, figurarceli magari disimpegnati dalle materiali vicende della storia in cui essi ci erano stati presentati: su questo piano avevamo conosciuti, poniamo, Julien Sorel e Federico Moreau e Swann: nè ci pareva di esserci dovuti ritrarre delusi se alcune volte, sotto il premere delle nostre interrogazioni essi si erano dileguati, col dito sulle labbra. Invece Radiguet ed i suoi personaggi si ostinano, con un fare oscuro, a non voler uscire dalle pagine in cui ciascuno dei loro gesti gioca come squisitissima trovata, e par che s’esaurisca. Dapprima sembra, quasi, che vogliano tenerci distanti imponendoci una penosa soggezione; che se insistiamo, essi si fermano attoniti e muti, non ad altro obbedienti che al loro inerte peso; e sui volti si dipinge uno stupore schifiltoso e noiato. E noi ci tocchiamo gli occhi: noi che avevamo creduto dianzi nei ginnastici volteggi delle loro psicologie.

In Francia, l’agile ed inesauribile Albert Thibaudet ha giustificati i romanzi di Radiguet inventando per essi un nuovo genere letterario: il romanzo a psicologia romanzesca (N. R. F. t-8’24). E’ il vecchio romanzo d’avventura che si rinnova e, invece di inventare situazioni e fatti avventurosi per i suoi eroi, trasporta l’avventura nell’animo loro, inseguendo e chiarendo tutta la sorprendente e complicata catena di azioni e reazioni intime che una semplicissima e, per sè, trascurabile vicenda esterna suscita nella coscienza di chi ne è attore. Codesto di Thibaudet e un modo come un altro per trascrivere i risultati a cui pervengono, e la fisionomia che assumono, questi romanzi in cui tutta la luce convergendo su meccanismi psicologici, par che tali meccanismi diventino essi i protagonisti della narrazione; mentre 1 protagonisti veri, gli uomini, vengono confinati in zone sfuocate e di minore interesse.

Dalla posizione di Radiguet e dei suoi personaggi — da quella vicinanza del loro sgranato gioco che ci appare quasi ingrandito per effetto di una lente e che va poi a risolvere in una evasiva lontananza non appena si cerchi di conoscerli interi — nasce questa conseguenza: che, a tradurre in termini correnti e consueti le loro caratteristiche morali, par sempre di tradirli e di far violenza a certe loro segrete ed insindacabili ragioni di vita. E che, così traditi dalla soverchia confidenza con cui avevamo creduto lecito avvicinarli, essi vogliano pagarsi una piccola vendetta, prendendosi gioco di noi e mostrandoci che la nostra mossa era preveduta da una loro sagacia che non ci sveleranno — e che, in fondo, noi siamo grossamente caduti in un tranello che essi ci avevano teso. C’è un punto del Bal du Comte d’Orgel in cui due personaggi, affacciati l’uno all’altro, tentano di eludersi a vicenda prendendo « le masque des personnages des mauvais romans du XVIII siècle, dont Les liaisons dangerueses sont le chef-d’oeuvre ». Questa maschera Radiguet ha messa sul più umano ed autentico volto dei suoi eroi — ed egli stesso se n’è ricoperto. Maschere modellate tutte su una medesima forma e che obbediscono tutte ad una medesima necessità, a cui l’autore soggiace non meno clic le sue creature. Che cosa nascondono queste maschere? Non ci potrà soccorrere una teoria esposta in qualche luogo del Bal du Comte d’Orgel: dove è detto che, per difendersi dal timore di riuscire dupes degli altri, spesso conviene di fare dupes gli altri. Non ci potrà soccorrere perchè anche le figure più riconoscibili, e le osservazioni che sembrano dette con voce più affabile e comunicativa, prendono qui, per t’ambiente che le circonda, un senso talmente ambiguo e sospetto, risultano talmente spaesate, che non ci riesce di fidarcene.

Non tenteremo nemmeno di ravvisare, nel segreto di cui Radiguet si circonda, una disposizione che negli adolescenti è affatto abituale: essi sogliono infatti occultare i loro sviluppi; e, a confortarli in codesto riottoso e diffidente ritegno, concorrono il risentimento di non essere ancora presi abbastanza sul serio dagli adulti e le misteriose affinità che quegli sviluppi presentano con le altre maturazioni, puramente fisiologiche, sorgenti di ebbrezze febbrili, vergognose e maligne. Nè saranno state delle ragioni di estetica del vivere che avranno persuaso Radiguet a mentire sulla sua qualità di adolescente come su un brutto male da cui le sue opere lo avevano già, almeno in ispirito, liberato, E non crederemmo infine che si tratti della civetteria di chi, sentendosi espresso interamente, si diverta a mentire sulla propria personalità reale, confidando nelle prove che, intorno a lui, rechino le sue opere.

Teniamo presente invece che come i romanzi di Radiguet risentono in tutto e per tutto l’influenza di Cocteau — ed avremo agio di constatarlo — così la figura di Radiguet che ci è giunta è frutto di una collaborazione tra Radiguet, che l’avrebbe vissuta, e Cocteau che ce ne ha comunicato il profilo su cui veniamo ragionando.

Cocteau pensa che lo stile sia un modo semplice di dire delle cose complicate. Ebbene: la figura di Radiguet sarà stata nella vita una realtà pratica e documentabile: certo è che, adesso, la possiamo interpretare come un espediente di stile nel senso preciso con cui la parola è intesa da Cocteau. Un esempio. Un pittore di Montparnasse chiedeva un giorno a Radiguet — che aveva allora quindici anni — un giudizio sopra una natura morta. « Mi sembra — rispose Radiguet — che sarebbe umano terminarla ». E poi tacque. Ecco che il ragazzo, con i suoi mutismi e con il suo diritto di comportarsi da sbarazzino funziona come forma, come elemento di rilievo stilistico in un giudizio scorciato alla brava.

I romanzi di Radiguet sono, come si diceva, romanzi di adolescenza: Radiguet apparterrebbe, per la materia che tratta, a quella costellazione di scrittori di morbide crisi ed esperienze giovanili che Henry Massis raccoglie sotto i segni e gli influssi dei maggiori astri Gide, Freud e Proust. Dato però che Radiguet discende direttamente da Cocteau, sarà lecito supporre che la necessità di esprimersi si sia atteggiata per lui — nè sapremo mai con quanto di consapevolezza e di riflessione — come obbligo dì trasporre in forme limpidissime e senza esitazione, certe storie di sviluppi interiori che, per loro natura, procedono a traverso titubanze, ripiegamenti scontrosi, oscurità. Fare dei romanzi di adolescenza che avessero la cruda secchezza di forme e, insieme, la pregnante gravità di contenuto che caratterizzano la risposta al pittore di Montparnasse. A conseguire tali risultati appare singolarmente adatto un adolescente che abbia a dispetto il proprio stato di adolescente: e pertanto se ne possa liberare di scatto, in racconti che non rispettino gli ondeggiamenti e i dubbi dell’età, e i torpori in cui quel tempo di risvegli è sommerso; ma espongono i fatti lasciando che altri ne scopra il significato di documenti. Chi ha tanta forza da non inorgoglirsi della propria precocità riconosciuta ed acclamata, non avrà indulgenze verso i suoi eroi e ce ti potrà porgere chiusi in tratti fermi e senza sbavature: e, d’altra parte, quella capacità di mentire che gli permette di attribuirsi diciottenni quando non ne ha che quindici (con una convinzione ben più grave di quella che sostenga, d’ordinario, un suo coetaneo in un caso analogo) diventerà, nell’esercizio dell’arte, la scienza della menzogna tanto lodata da Cocteau: per cui i fatti riscontrati sulla propria persona e scoperti nel trepido attimo del loro nascere potranno subito, senza che si raffreddino, venire coraggiosamente scostati ed osservati — e mutarsi, infine, in materia di romanzo. Se poi, di fatto, la figura di Radiguet abbia o non abbia corrisposto adeguatamente alla funzione stilistica che le veniva affidata, è cosa da discutersi: ad una prima lettura, se ci si abbandoni alla precipite travolgenza delle narrazioni che egli ci ha lasciato, quasi si risponderebbe di sì. Che se, nonostante tutte le spiegazioni, Radiguet seguiti a rimanere in qualche modo vittima di un mistero che. deliberatamente creato, si sia poi infittito oltre il previsto, potrà sempre, per tacitarci, tornar buona una certa mistica per cui l’intelligenza è capace di comprendere prima ancora di aver pensato: la mistica, si direbbe, dell’intelligenza, che sente. Valga in proposito un apologo di Cocteau che, nel caso presente, non pare privo di qualche sapore: «AU JUGEMENT DERNIER; J’interroge: El les catastrophes de chemin de fer, Seigneur? Comment m’expliquerez-vous les catastrophes de chemin de fer? — Dieu (gèné): Ça ne s’explique pas. Ça se sent».

Ma poi Cocteau ci aveva anche, a suo tempo, raccontata la storia di Thomas l’imposteur. Thomas era un ragazzo che voleva andare alla guerra: e i ragazzi non vanno alla guerra, di solito. Ma Thomas ha una strana struttura spirituale: si crea, per vivere a suo modo, una menzogna e poi coincide tutto intero con la menzogna che si è creata: sì che quella menzogna diventa la sua vera personalità. Approfittando di una casualità di nomi, Thomas si fa passare, quasi senza volerlo, per il nipote di un celebre generale. Così riesce ad andare alla guerra; e perfino l’amore, non cercato, gli sorride: Thomas, grazie ad una menzogna, ha realizzato in pieno quella vita più grande di lui alla quale aspirava. Una sera egli esce di trincea per portare un avviso: una pattuglia di tedeschi lo sorprende. Thomas pensa che, per salvarsi, gli converrà di fingersi morto. Ma la menzogna è la sua verità: Thomas era morto per davvero.

Cocteau, mettendosi a celebrare ed a commemorare Radiguet, potrebbe anche aver riconosciuto nel giovane romanziere una reincarnazione del suo Thomas. Proviamoci a ripetere