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26 il baretti

Fiodor Cusmic Teternicov — in letteratura F. C. Sollogub — ha scritto dal 1896 in poi, romanzi, tragedie e versi, ha assistito a due rivoluzioni senza essere tentato a diventarne il poeta rappresentativo, — sempre raccolto al suo compito letterario, senza fretta e senza avventure, con meticolosità di stilista. Il suo nome non fu oscuro durante il più laborioso periodo della letteratura russa contemporanea, quando attraverso il lavoro di riviste come Il Messaggero del Nord, La Bilancia, I problemi della vita, (chi vuole dei termini di paragone italiani pensi alla Cronache bizantine, al Leonardo e alla Voce) si venivano rivelando Cecov, Andreiev, Corolenco, Blok. Di quella età egli resta il più grande superstite. Tuttavia poco se ne sa in Italia, quasi egli non fosse dicci volte più caratteristico e sconcertante del troppo celebre Gorchi.

Poeta decadente e secessionista, romanziere realista: sono le definizioni più correnti dei critici forse perchè ha tradotto Verlaine e ha dichiarato di ritrarre le sue figure dal vero. Invece sulle più varie fantasie di Sollogub domina una severa amarezza, un'esperienza cinica della morte e del peccato. La poesia filosofica e l'osservazione tagliente nascono identiche in lui da una visione serena e disincantata di tutte le crudeltà. Sembrerebbe che scrivendo si sorvegli inesorabile per rimanere classicamente rigido e signore di se stesso, deciso a non confidarsi in alcuno, sdegnoso di conforto. La sua impassibilità di artista è diabolica come in sua costanza di creatore. Lavorò al Piccolo diavolo dieci anni dal 1892 al 1902; si decise a stamparlo completo solo nel 1907.

Fantasia tragica. Nella raccolta delle sue opere già i titoli ti sconcertano: Ombre; La vittoria della morte; La freccia della-morte; L'incanto dei morti; I serpenti; L'ammaliatrice dei serpenti, Il cerchio infuocato. O forse queste magie lugubri sono disposte per atterrirci, come di Andreiev sospettava Tolstoi? Bisogna constatare che il gioco di Sollogub e serio e le analisi letterarie pungenti, precise. Andreiev e trascurato e abbagliante come si addice a una fantasia epica. Sollogub è il raccontatore scaltrito, — tesa l’attenzione all’artificio della parola e agli equivoci della psicologia, — noncurante di atteggiamenti politici e moralistici. La sua attenzione si rivolge al di sopra dell'intreccio bruto, a un culto pagano della bellezza delle forme e dei corpi. Tuttavia in Italia riuscirono a inventarne il più goffo dei ritratti, come se egli fosse tutto immerso nel problema sociale e se ne facesse apostolo, Secondo questi critici guastamestiere Il piccolo diavolo si dovrebbe intendere press’a poco così.

C'è in una cittadina russa di provincia un bel tipo di professore Peredonov, protervo e maligno, che invece di migliorare la sua cultura si ostina a vivere nella mediocrità acida e borghese. In quest’uomo Sollogub dovrebbe fare la cattiveria impotente dell'uomo arido incapace di affetti e di entusiasmo. Peredonov si gode tra litigi e scenate, la più volgare delle peccatrici, la quale gioca d'astuzia per farsi sposare. Se nonché il paese è piccolo, Peredonov è un buon partito e nessuna ragazza vorrebbe lasciarselo scappare. Sollogub si serve proprio di questa storiella accessibile per provarci le sue ironie, e ci fa assistere strepitosamente alla più emozionante caccia a un marito. Ma ecco, sempre secondo ciò che vedono i critici più tranquilli, l’ambizione che complica le cose. Peredonov per diventare ispettore sposa la peccatrice Varvàra e accortosi d'essere stato ingannato diventa pazzo di gelosia e di bile, calunniatore, incendiario, assassino. I critici vogliono poi ad ogni modo un onesto finale di cattiveria punita.

Invece Sollogub è assolutamente spregiudicato e vi può raccontare, nella seconda parte del romanzo, la più scabrosa storia dell'romanzo sensuale di Liudmila per un adolescente salvandosi dal moralismo e dal lubrico per le sue qualità di purezza narrativa perspicua, severa subordinata a necessità estetiche di costruzione e di fantasia. Il ritratto più convincente che si possa offrire di lui è una figura di cantore savio e disinteressato, scrupoloso come uno scienziato di descrivere le riposte sfumature delle sue armonie, nelle quali non impegna mai il sentimento ma sempre la sua onestà letteraria.

Basterebbe indugiare un poco sulle seduzioni e sulle sorprese che egli ci appresta, quasi magicamente, nel campo delle psicologie. Ma creato intorno ai personaggi un’atmosfera limitata e ferrea che con l'ostentazione di cordialità attribuisce all’ambiente paesano un rilievo cristallino di freddezza distinta e precisa.

La figura di Peredonov è stata ben fortunata in Russia se per lui si è parlato di peredonovite come di una malattia nazionale. Eppure l’autore ha evitato di speculare su queste rispondenze, pago di lavorare il suo romanzo come uno specchio terso.

Non è bello che del nostro Peredonov si parli come di un semplice malvagio. Bisogna guardare alcune circostanze centrali illuminanti. Peredonov è un lunatico di costanza. Appena avvicinatisi a lui bisogna assuefarsi ad averlo compagno di fantasia, nè sarà cortese offendersi dei suoi scherzi macabri. Il fatto è che Peredonov ha le sue fissazioni.

Non si interessa degli affari altrui, non ama gli uomini e pensa a loro solo per quel che riguarda i propri vantaggi e piaceri. Ma perchè infierire contro di lui chiamandolo banalmente egoista? La situazione è più complessa e riservata perchè Peredonov considera il mondo con occhi morti, come un demonio che languisca nella sua solitudine e nella sua tristezza. Voi vedete subito quali incanti ci attendano a guardare le cose con la scorta di un osservatore cosiffatto e quali tesori di insolenti: franchezza ci si possano rilevare. La consuetudine con un simile personaggio ci può aprire addirittura le comunicazioni con l'oltretomba. In lui necessariamente il quotidiano coesiste con l'eterno; l’assistere pacificamente a una messa diventa una diabolica funzione di spiriti maligni. Ascoltate.

« Durante l'ufficio religioso l’odore dell'incenso che gli faceva girare la testa suscitò in lui una sensazione vaga, simile al desiderio della preghiera. Una curiosa circostanza lo turbava. Una piccola creatura strana di forma indecisa, un folletto piccolo, grigio, agile, sbucato non si sa di dove, sogghignava tremava e si aggirava attorno a Perodonov.

Ma egli tendeva la mano per afferrarlo, quello spariva rapidamente, correva dietro la porta o sotto l'armadio, e ricompariva un minuto dopo e tremava e si burlava di lui, grigio, senza volto, svelto.

Finalmente, terminato l’ufficio, Peredonov che aveva capito borbottò sottovoce gli scongiuri contro il sortilegio. Lo spiritello grigio sibilò adagio adagio, si raggomitolò come una pallottola e rotolò dietro la porta. Peredonov ebbe un sospiro di sollievo».

Nel mondo di Sollogub questa pazzia è la legge. Egli non ha pietà alcuna per le sue creature, le scopre nei momenti più imprevisti, ne svela le più legittime miserie nascoste. Il suo edificio non starebbe in piedi, i personaggi non si capirebbero presuntuosi come sono nelle loro pose, se egli non si vendicasse di questi fantasmi impettiti e calcolatori, col rivelarne, da insolente maldicente, i peccati più umani, e Marta non vuol concludere un matrimonio regolare e intanto lascia entrar in camera sua i giovanotti dalla finestra. Non ha nè pudore nè onestà ».

«Varvára non si reggeva in piedi per l’ubbriachezza e il suo viso avrebbe suscitato ribrezzo in chiunque non fosse ubbriaco per la sua espressione sensuale, ma il corpo era magnifico, come il corpo di una ninfa delicata, a cui per virtù di stregoneria fosse attaccata la testa di una fornicatrice appassita. E questo corpo incantevole per questi due esseri miseri, sudici ed ubbriachi rappresentava soltanto una fonte di bassa tentazione ».

«Il direttore Cripae quando si era formato dai suoi libri una certa quantità di appunti li sviluppava con parole sue e così metteva insieme un manuale che dava alle stampe e che si vendeva se non proprio come i libri di Uscinschi o di Eutuscefschi, tuttavia abbastanza bene ».

Sollogub riesce a farci vedere questi eroi dietro le quinte, in piena cordialità domestica. La squallida impassibilità delle sue pitture risulta tragica. Le piccole miserie che ci racconta hanno sempre un sapore fatale: noi le vediamo limpidamente, secondo un tono di canto popolare, quasi fenomeni della natura ancora grezza, come rupi incise nel cielo cristallino. « A cena tutti si ubbriacarono, anche le donne. Volodin fece la proposta di insudiciare di nuovo le pareti. L'idea piacque a tutti e subito, senza finire di mangiare, si misero all’opera divertendosi come matti. Sputavano sulle tappezzerie, vi versavano sopra la birra, lanciavano contro le pareti e il soffitto freccie di carta intinte nell'olio, attaccavano al soffitto dei diavoli fatti di midolla di pane. Poi escogitavano di strappare la tappezzeria a striscie, scommettendo a chi faceva gli strappi più lunghi. In questo gioco Prepolovienscaia guadagnò ancora un rublo e mezzo. Volodin aveva perso e per causa della perdita e dell'ubriachezza divenne improvvisamente triste e cominciò a lagnarsi di sua madre: — l'eroe mi ha messo al mondo? — diceva. — Che cosa pensava allora? Che vita è la mia adesso! Ella non mi è madre ma sola genitrice.»

In un personaggio come Volodin Andreiev avrebbe potuto cercare stoffa per un suo eroe: egli ne avrebbe giudicata interessante per l'appunto la psicologia. Sollogub invece lascia Volodin ai suoi problemi di filosofo ubbriacone e si preoccupa sopratutto di fissare la struttura anatomica.

Cosi i crudi particolari veristici devono essere gli elementi di una intonazione solenne e di una fantasia spregiudicata. Sollogub non si può compiacere di piccole favolette morali: le esemplificazioni più modeste hanno valore tragico per il rigorismo della sua arte. Tutte le sue virtù poi si vogliono conoscere nel cimento costruttivo del romanzo. E il romanzo rimane nel senso più etimologico, per questo ultimo discepolo di Gogol, la pura consolazione della libera immagine e del canto. Perciò al nostro ricordo Sollogub risveglia un’eco di baldanzosa epopea, che pare sorprendere i tempi.

p. g.


DONNE


Parla Rosanna:

Oreste rubacuori! Davvero le donne che osan vantare amori con Oreste si smascherano: l'ingenuità le tradisce. Se c'è donna che conti nella vita di Oreste quella son io, ed io sola. Nè c'è di che trarne gran vanto: se non è goffo, timido certo, e come svenevole! Quanto ho faticato a liberarmene: non gli ho fin lasciata l’illusione d'essere lui a rompere un bel giorno?

Come a un ragazzo, da ogni suo discorso trapelava un desiderio non già di possessione, ma di tiepido affetto: uno segreta tenerezza lo struggeva tutto. M'accarezzava con gli occhi, mi passava accanto senza sfiorarmi. Quanto a me, son senza rimorsi. Mi son sempre adoperata ad assecondarlo, a non farlo soffrire. Ma via! — potevano soddisfare me tutte quelle smancerie! Era verso la famigliola per bene che inevitabilmente lo vedevo tendere. Il mio — chi lo negherà! — è stato fair play. Giocava al fidanzato, lui; ma sul serio. Sulle prime anzi confesso che ci presi anche gusto. Non capivo bene dove mirasse; ma quell'ingenuità se non nuova, era rara.., Alla lunga però che tedio! Le lettere appassionate, d’un ardore contenuto — ma i colloqui! La distanza, anzitutto: mesi, dico, e mesi ci vollero perchè giungesse a sedermisi accanto — mesi ancora primachè ardisse baciarmi furtivamente la mano. — Per scuoterlo mi finsi gelosa: sorrìse, rise. Tanto ai suoi occhi stessi la mera supposizione di un altro suo amore appariva ridicola. — Certo il mio ritratto lo teneva sotto il guanciale, certo popolavo i suoi sogni, certo il postino lo faceva trepidare... Non fosse stata la noia, tale amore mi commuoveva. Però bisognava finirla, anche a costo d'esser crudele. Scopersi il mio gioco, gli squadernai dinanzi un rivale, lo volli geloso. Nulla — cioè: prese a disperarsi, a piangere, ma poi tornava sempre ad accucciarmisi ai piedi... Allora, dovetti ricorrere alla spudoratezza, allo scandalo, persuaderlo coi falli che da chiunque mi lasciavo cogliere purché mi ghermisse. — Penso che si sdegnò segretamente; poiché riposte le sue metafore sbiadite, le astrazioni sentimentali, scomparve.


Parla Zenaide:

Benché giovane ancora, sono zitella di nascita — per destinazione. Ho sempre quindi potuto stimar durevole l'amicizia che mi lega Oreste. Il quale, senza che me ne adombrassi, poteva raggiungermi per via e dirmi: « Se t’ho riconosciuta di lontano è per il tuo vestito ». Poiché non ho da piacere a nessuno dicono ch'io ami lo scandalo: invece se mi ostino a esagerare, anzi a caricare la moda, è solo per il solitario piacere di veder riflessa nelle vetrine la mia immagine come in uno specchio deformante.

Oreste pigliava tutto sul serio. Aveva un certo qual modo di sorridere tra lo sbalordito, il compassionevole e il cordiale che sottintenderà: « mia cara, il tuo gusto è insoffribile », Oreste non sa mascherare il suo gioco. Perciò si nasconde adesso. — Taluni quando mi guardano han l’aria di chiedersi se sono una donna. Talvolta mi son sorpresa a chiedermi se Oreste è un uomo — o solamente se mi sia simpatico. Una sera l'altro'anno lo trovai che snocciolava compito, compunto, stucchevole una filza di luoghi comuni a un signora. Poi mi vide e mi si mise a fianco tentando della maldicènza. N'é affatto incapace, glielo dissi e cosi lo rimisi in tono. (Ha sempre bisogno di qualcuno che lo regoli). Allora prese a parlarmi di Michelangelo, di Cézanne, di Njinski; delle cravatte inglesi, di Litlian Gish, delle colline dell'Umbria; di Rimbaud, del Lunrana e dell'arte negra; di un preludio di Bach; di uno scenario di Dérain, di un verso del Burchiello. Tutto ciò non si mescolava come in un cocktail, perché Oreste è ingenuo - non sa agitare la miscela. Piuttosto era un tiro da fiera, simmetrico, assurdo, per bene: i fantocci ritagliati in lotta dipinta tutti al medesimo piano. E poi? Niente, io amo i massacri. Oreste invece non sa che guardare. Stavo per sparare il bruciapelo, quando il jazz-band in sordina riprese - Bastò questo. « Mia cara disse alzandosi - suonano Doo-dah 'Blues. Senti il saxophone?» E lo seguii nei più lenti e misteriosi passi.

Con tutto ciò Oreste non è snob - per nascita. Ma il nodo della cravatta penso che doveva ossessionarlo per giornate intere. Perché differente sempre da quello del ritratto ideale di sé che doveva aver sempre dinanzi agli occhi, cioè negligente un poco, ma ad arte. Se ora è scomparso dev'essere per avere scoperto che il nodo si fa dentro. Bisogna poi, come Brummel dimenticarsene in pubblico.

1923 O.


PIERO GOBETTI — Editore

TORINO - Via XX Settembre, 60

Imminente:

RICCARDO ARTUFFO


L'ISOLA

Tragedia


Al prenotatori....... L. 1O


ANGELINI

Da più di un anno sono usciti i due libretti in cui Cesare Angelini ha raccolte le cose sue che gli erano più care. I titoli dei due libretti sono entrambi candidissimi ad un tempo e carichi di sottili e «piasi maliziose intenzioni. S'intitola Il lettore provveduto una raccolta di saggi sugli scrittori più in vista che siano oggi in Italia: ed è una specie di voyage autour de sa chambre che l’autore compie accompagnandosi, volta a volta, con Baldini o con Linati, con Gotta o con Papini. Il lettore provveduto: un titolo che sa un pò di don Bosco, come Angelini stesso con un amabile e arguto sorriso commentava tra gli amici.

L'altro libro è intitolato Il dono di Manzoni, e riunisce alcuni discorsi pieni di grazia e di affetto che furono composti non senza un certo disegno d'insieme, nell’anno del centenario manzoniano. Angelini non si proponeva di verificare o di inaugurare qualche sbalorditiva teoria critica sul grande Manzoni, nè di capovolgere le prospettive entro le quali i lettori attenti ed intelligenti sogliono ritrovare i loro Promessi Sposi. Bastava a lui di notare le tracce del suo passaggio d’uomo acuto e mite a traverso quelle pagine immortali: di isolare, rileggendoli con accento personale, qualche episodio o qualche frase. Ed era già contento se gli riusciva di far sentire ai suoi ascoltatori che l'addio ai monti, poniamo, ha il suono ed il respiro lirico di un coro di tragedia. Forse Angelini poteva mettere come epigrafe del suo libretto la frase con cui Anatole France si sbarazzava da tutti i crucciosi dibattiti intorno alla critica: se essa sia qualcosa di assoluto o di relativo, se possa o non possa riuscire obbiettiva. Le bon critique est celui qui raconte les aventures de son âme au milieu des chefs-d’oeuvre ».

Angelini è, nel concerto della critica italiana, la voce bianca: quella a cui sembrano riservati di diritto le fioriture, i trilli, i dolci vocalizzi. Ad altri il più grave compito di segnare i bassi fondamentali. Da quando De Robertis lo presentava ufficialmente come lettore al pubblico della «Voce», egli ha seguitato coscienziosamente ad esercitare quest'ufficio, che — nello stato presente delle lettere nostre — non è privo di una galante ed indulgente avedutezza. Davanti ad una letteratura che ben poco, o nulla, produce di essenziale, chi accetti di dichiararsi semplicemente un lettore può permettersi di parlare anche se non sollevi dei fieri problemi che riuscirebbero soverchi e inadeguati; può avanzare le sue censure senza dovere, ad ogni minuto, piagnucolare sulla morte della poesia; può manifestare per questo o quello scrittore delle simpatie letterarie od umane, senza cader nel pericolo e nel ridicolo di prendere troppo sul serio cose che non se lo meritano. Al lettore, più che al critico dichiarato, è lecito essere curioso dello scrittore preso in qualità di uomo privato, con tutte le sue doti personali e le sue caratteristiche, le quali non sempre coincidono con ciò che dai libri traspare: e Angelini deve più d’ogni altro aver frequentato familiarmente i suoi contemporanei per via di conversazioni e d'amichevoli epistolari. Cosi l’abbiamo veduto commemorare l’Albertazzi citando preziosi frammenti di lettere del defunto novelliere. Quando poi, d’uno di cotesti scrittori, esca un'opera nuova — allora Angelini si fa sulla porta di casa e, ancora una volta, accoglie lo scrittore come amico, con l'aria di seguitare una conversazione interrotta. Queste accoglienze di Angelini sono improntate ad una urbanità soavissima ed a tenera cerimoniosa dimestichezza. In lui l’abito del sacerdote cattolico sì riconosce anche per una squisita educazione e per una tal quale misura e cortesia di modi in cui si ravvisa la lunga tradizione di quel polito vivere sociale che distingue i migliori ecclesiastici — e quella gentilezza di costumi che non discorda dalla severa rigidità delle massime di vita morale.

Angelini si professa innamorato del «suo bel Renato Serra». Serriano egli è di fatti; ma il Serra che egli ha tolto a modello è — più ancora che il letterato acutissimo, — il mistico amatore e vagheggiatore della bellezza letteraria. Angelini ha tolti da Serra, e li ha moltiplicati, gli sfoghi paesistici e descrittivi, un poco sensuali con cui quegli tentava di liberarsi dai dubbi di un’analisi critica troppo pericolosamente indugiata e sottile. Senonchè il nostro ha ridotto quei modi — da commenti marginali che erano e, in fondo, indiretti motivi critici — a pretesti per colorire e miniare i piccoli paesaggi e idilli di cui molto si piace. Il pericolo è di cadere in una certa leziosaggine, che gli fu di fatto rimproverata; ma dove sono buone, le pagine di Angelini sono davvero piene di delicate cose naturali: sapor di frutti, color di cielo, mormorii di fronde e canzoni d'uccelli.

Prezzolini racconta che Alfredo Panzini disegna, davanti ad ogni capoverso, un piccolo fiore. Se l'aneddoto già non esistesse e non fosse già riferito a Fanzini, mi piacerebbe inventarlo per Cesare Angelini.

g. d.




PIERO GOBETTI — Editore

TORINO - Via XX Settembre, 60


Letteratura:

K. M. Bongioanni: Venti poesie L. 8 —

V. Cento: Io e me. Alla ricerca di Cristo > 6 —

T. Fiore: Eroe svegliato asceta perfetto > 4 —

T. Fiore: Uccidi «10,50

G. Prezzolini: G. Papi > 6 —

G. Sciortino: L'epoca della critica > 3 —

M. Vinciguerra: Un quarto di secolo (1900-1925) > 5 —

Si spediranno tutti, franchi di porto, agli abbonati del Baretti, contro vaglia di L. 37.