Pagina:Il Baretti - Anno II, n. 8, Torino, 1925.djvu/1

Da Wikisource.


IL BARETTI


QUINDICINALE EDITORE PIERO GOBETTI Torino VIA XX SETTEMBRE, 60

ABBONAMENTO PER IL 1925 L. 10 Estero L. 15 - Sostenitore L. 100 - Un numero separato L. 0,50 CONTO CORRENTE POSTALE

Anno II — N. 8 — 10 Maggio 1925


SOMMARIO: a. rossi: Surréalisme.s. benco: Jomes Joyce.r. franchi: Parole intorno a Rivière.l. pignato: Ottocento francese: Il problema romantico.a. damiano: Rupert Brooke.m. puccini: Araquistain scrittore di teatro. — p.g. : Smelov. — p.g. : Marcel.

LA RIVOLUZIONE LIBERALE

Settimanale

Editore PIERO GOBETTI

Abbonamento annuo L.20 - Estero L. 30

Un numero L. 0,50''

NOVITA':

A. RICCIARDI

SCRITTI TEATRALI

con prefazione di A. G. Bragaglia

Si spedisce franco di porto a chi manda

vaglia di L.6 all’editore Gobetti - Torino

SURRÉALISME

La parola «Surréalisme» venne escogitata, anni sono, da Guillaume Apollinnaire, a proposito del suo dramma «Les mamelles de Tiresias», per dichiarare certe particolari tendenze poetiche. Egli non ha lasciato spiegazioni esaurienti circa il senso esatto che dava a quel termine; comunque, esso era strettamente poetico, e tendeva a indicare quella frangia di suggestività che aleggia, intorno a talune espressioni artistiche, di là o indipendentemente, dal loro significato intuitivo; si da far pensare a non si sa qual rivelazione di una realtà altra da quella chiaramente espressa. Si pensi, per restare nella tradizione al bizzarro sentimento anteriore a ogni comprensione che suscitano certe sequele di frasi negli appunti di Leopardi «Ombra delle tettoie, Pioggia mattutina del disegno di mio padre, Iride alla levata del sole») o questa frase di G. Scalvini «Le rovine fanno ombra agli armenti che vanno a sdraiarsi sulle soglie dei Santuari». La ricerca di effetti di tal genere è essenziale nella poesia detta «moderna».

Quanto alla parola «surréalisme», essa, dimenticata per un tempo, eccola ora risorta a improvvisa notorietà. Jean Cocteau fu primo, se la memoria non falla, a rievocàrla; comunque, svariate scuole letterarie alla moda di Francia, l’hanno ora presa a prestito per illustrare le loro teorie. Esiste financo (se già non è morto) un gruppo o movimento cattolico, che vede nella rivelazione e nei libri sacri, inarrivabili esempi di « surrealismo ». Nè, su questo capitolo, gli si potrebbe dar torto. Ma quello che ha per davvero messo a rumore il mondo delle lettere, è il surréalisme» proclamato da André Breton, e che ha trovato tosto consenzienti tutti o quasi i nomi più noti del fu-Dadaismo; e altri giovani e giovanissimi. L'estremismo delle idee, l’ingegno degli scrittori, hanno stupito, urtato, intimidito. Innanzi tutto è interessante come « segno di tempi».

È dunque di questo che parleremo.

L’epoca che stiamo vivendo presenta un curioso spettacolo. Si vedono, per un lato, tutti gli spiriti di avidità e d’avventura darsi pazzamente campo, le applicazioni pratiche della scienza, il progresso materiale, eccedere di giorno in giorno ogni previsione, e le filosofie idealistiche, meglio ancora che le materialistiche, accompagnare questo sforzo, glorificare l’attività umana, considerando lo spirito, il reale, o che altro si dica, come in sè giustificantesi, e la confusione del mondo come un gran cantiere dove tutti trovano da fare, e ognuno rappresenta la sua parte; anche senza volerlo e saperlo. Ma ecco, in cotesto trionfo del «razionale concreto» serpeggiare, correre, i più bizzarri brividi di disagio. Ecco, nei paesi più «progrediti» un'atmosfera da millennio, le dottrine teosofiche, le esperienze spiritiche, telepatiche, le fedi nelle virtù taumaturgiche della preghiera, i nuovi messia nelle piazze, le epidemie di suicidi: lo sconcerto creato nelle menti dagli idealismi dissolventi ogni solida credenza nel reale, dalle teorie relativistiche fisiche, psicologiche, morali, andarsi diffondendo, dilapidando in confuse illazioni giù giù per tutti i corsi e rivoli della «cultura» sino al minuto commercio delle conversazioni da salotto e delle cronache da gazzette. Il «Dadaismo» è stato, di tale disagio, un fenomeno estremo e letterario. Una sfiducia istintiva e irriducibile in tutti i valori sociali, una esasperata coscienza della propria personalità, contradditoria, effimera, eppur risolutamente opponentesi alla immemoriale costituzione del mondo, come sola importante per se medesima: un disgusto di tutti gli scopi proponibili alla propria attività, comicamente inadeguati a cotesta incomprensibile condizione umana: un senso di serietà verso tutte le manifestazioni d’arte o di pensiero che non riflettano tale stato di mente, l’irrisione e lo scherno per tutto quel che sa di grave, di ben assiso, come di chi sia in possesso di una segreta conoscenza la quale tolga ogni valore a tutto ciò che pel mondo ha importanza. Questo stato d’animo non era del resto circoscritto a quei giovani: ma particolare era nel loro atteggiamento un che di gelido e di furente, una intenzione manifesta di « brouiller toutes les cartes » di far dello scandalo per lo scandalo (formula di Louis Aragon) di manifestare insomma in lutti i modi più insultanti il loro reciso non conformismo. Pur tuttavia, essi non rinunciavano a scrivere, ad agitarsi, a far rumore: non solo, come taluni affettano di credere, per smania di notorietà: pur in quell’atteggiamento disperato, una confusa speranza non li disertava, quella di contribuire all’affermazione di uno «spirito moderno» del quale pareva loro sortire le esigenze e l’influsso: di essere, secondo l’immagine di André Breton, un poco simili a cercatori d’oro; i cercatori dell’oro di questo tempo.

Proclamata la fine del movimento Dada, ecco ora dopo qualche anno di dispersione, le medesime tendenze, (e i medesimi nomi) farsi più risolutamente innanzi col «surréalisme» nel quale non è per nulla attenuata, accentuata anzi se possibile, quella volontà di negazione, ma nel medesimo tempo si proclamano nuove direzioni, nuovi positivi sfoghi, a quel disagio e a quell’angoscia; esso si vuol dare anzi per una sorta di universale panacea a cotesto «male dell’esistenza».

«Il ne tient peut-être qu’à nous de jeter sur les mines de l’ancien monde les bases de notre nouveau paradis terrestre...». Per giungervi, il solo mezzo è di combattere a fondo, di mandare in rovina, la concezione del mondo realistica, latina, che sta alla base della nostra civiltà: civiltà che ha ormai fatto il suo tempo, e non è più che un «bastione della mancanza di fede, della vecchiaia e della viltà». Il razionalismo, il tomismo, la credenza insomma a un mondo solido e reale, assolutamente distinto da tutti i giochi e le illusioni del pensiero, è nefasta, perchè riduce l’uomo in schiavitù; e per di più affatto arbitraria. Ascoltiamo Goethe, campione di cotesta realtà: «Ogni uomo sano ha la certezza della propria realtà, e di una realtà che gli sta intorno. Senonchè vi è una zona buia del cervello, una zona, nella quale nessun oggetto si viene a riflettere: allo stesso modo che nell’occhio v'è un punto il quale non vede. Se l’uomo troppo a lungo si indugia a porvi attenzione, se vi si sprofonda, egli cade in una malattia dello spirito, gli par d’intravedere cose di un altro mondo, le quali propriamente non sono se non Chimere, cose senza limiti nè forme, angustiose al modo di certi vacui luoghi notturni, e più tenaci che fantasime a perseguire colui che non se ne sviluppa per tempo ». E se invece, dicono i surrealisti, siffatti presentimenti celassero la rivelazione di una totale realtà, della quale il mondo esterno e positivo non è che una delle forme particolari, entro di cui l’umanità è trattenuta come da un maligno incantesimo. Se fosse possibile, volgendole decisamente le spalle, e sprofondandosi in quella «zona buia» trovare la propria liberazione? Questa è l’avventura «surrealista». «L’Ame sans peur s’enfonce dans un pays sans issue, où s’ouvrent des yeux sans larmes. On y va sans but, on y obéit sans colère. On y voit derrière soi sans se retourner. Je contemple enfin la beauté sans voiles, la terre sans taches, la médaille sans revers. Je n’en suis plus à implorer sans y croire un pardon sans fàute...».

La zona buia diventa una notte, notte traversata di lampi, «la nuit des éclairs». I lampi sono le immagini che, nella sua originaria purezza, lo spirito forma, coll’accostamento impreveduto di termini lontanissimi, immaginari senza tregua creatrici di nuove realtà poetiche. Coteste realtà poetiche non sono illusorie, ma rivelazioni del «funzionamento reale dello spirito» il quale è in contatto, partecipa, di una verità superiore. (E' interessante vedere, in altro campo, il cattolico Max Jacob annunciare alcunchè di simile: « Il vient une époque où des hommes nouveaux s’abstrairont des sensation terrestres pour approcher le ciel le plus voisin de nous et des autres. Cette epoque est deja venue».

Siamo dunque giunti alla teoria strettamente poetica del surrealismo. Il linguaggio, dicono costoro è il principale responsabile di quella concezione contro la quale si ribellano. «Les mots sont sujets à se grouper selon des affinité particulières, lesquelles ont generalement pour effet de leur faire recréer à chaque instant le monde sur son vieux modèle. Tout se passe alors comme si une réalité concrete existait en dehors de l’individuel...». Rompere la logica del discorso, portar la confusione nelle leggi del linguaggio, è dunque necessario. Più precisamente, occorre astrarre affatto dal nostro pensiero cosciente, ridursi in istato di disponibilità assoluta, e lasciar parlar le sirene interiori. La poesia si riduce dunque all’ubbidienza a cotesto «magico dettato». I più grandi poeti, dicono i surrealisti, non debbano forse a questa attività extra cosciente le loro immagini più rivelatrici?

Non si può negare ai «surrealisti» di aver portato alle conseguenze estreme idee, desideri, preoccupazioni, aleggianti nel tempo nostro: con un semplicismo che non è prova d’ingenuità, bensì del loro fermo volere di non conformismo, di scandalo, di sistematico rovesciamento. Di qui il tono inquisitoriale, le proposizioni rivoltanti. L’amore soltanto, di tutto quel che gli uomini hanno caro, trova grazia presso di loro, come uno dei più sicuri modi che rimangano per evadere, esaltarsi, perdersi. Per, come dice Breton, giungere a essere «celui qui n’a plus d’ombre».

Tuttavia, di questi ultimi tempi, André Breton, Louis Aragon, gli alfieri del surrealismo, hanno preso a confessarsi con linguaggio più umano. E' uno spettacolo che val la pena d’essere seguito. Limitiamoci ora a rilevare l’alta qualità letteraria dei loro scritti. E citiamo ancora una frase per ciascuno:

«Notre navire emportait tout ce que vous pouvez concevoir de plus à nous, de plus précieux. Nos cris, notre désespoir quand ous sentimes que tout allait nous manquer, que ce qui pourrait exister détruit à chaque pas ce qui existe, que la solitude de absolue volatilise de proche en proche ce que nous touchons... ». (A. Breton).

«Oh grand Rêve, au matin pâle des édifices, ne quitte plus, attiré par les premiers sophismes de l’aurore ces corniches de craie ou t’accoudant tu mêles tes traits purs et labiles à l’immobilité miraculeuse des Statues! » (L. Aragon).

alberto rossi.


JAMES JOYCE

«Con la guerra anglo-irlandese, condotta parallelamente alla guerra continentale, una prima fase del Rinascimento letterario finiva. Un’altra incominciava. A Trieste».

Così Valerio Larbaud, concludendo nella Nouvelle Revue l’ultima polemica su Joyce che mi sia venuta sott’occhio: e quel nome di Trieste avventurosamente lanciato nella letteratura irlandese è anche la ragione per cui mi arrischio a parlare di questo tanto difficile scrittore d’Irlanda. Della letteratura irlandese, no, non oserei: ma in verità, da quando ho conosciuto Joyce, non ho mai pensato di poterlo restringere nella letteratura irlandese. Avrei potuto pensarlo quando egli mi era noto soltanto di nome, come un professore di lingua inglese all’Accademia di Commercio di Trieste, per quella restrizione che si suol mettere — prima d’aver torto — alla letteratura dei professori. Ma conosciuto l’uomo, e poi lo scrittore, l’ho sempre trovato congiunto con tutto l’occidentalismo europeo, e non con le epoche dalla storia d’Irlanda. Egli stesso del resto, nel suo cosmopolitismo, non mi sembra aver dato proprio all’elemento irlandese nella letteratura un’eccessiva importanza. Il giovinetto eroe del Portrait of the artist, che è poi lui stesso, lascia volentieri altercare i compagni sui primati irlandesi, e accetta l’alterco soltanto sul primato di Newman nella prosa e di Byron nella poesia. Altra cosa è l’aver riconosciuto nell’Irlanda, e più propriamente in Dublino, il solo teatro possibile della sua rappresentazione della vita: qui v’è dell’irlandese invero, e v’é fortemente. Un uomo come lui sempre lontano dalla patria, di là partito a vent’anni, sbarcato a Pola per caso, vissuto dieci anni a Trieste, indi a Zurigo quanto fu lunga la guerra mondiale, rappresentato in un teatro di Monaco prima che riconosciuto nel suo paese natale, avrebbe potuto trasferire su questa o su quella città il suo acuto spirito di osservazione degli uomini e delle atmosfere che essi impregnano di loro: si ricondusse invece con ogni opera d’arte, all’Irlanda, quasi riconoscendola indivisibile dalle sue impressioni prime, più fresche, più midollari, più vicine alle radici della vita, e in essa ricondensando quanto gli era venuto dalla sua esperienza universale. In questo senso fortemente biologico, e non in senso letterario, egli è rimasto irlandese.

In senso letterario egli è oggi Ulysses, vale a dire il viaggiatore che ha saputo tutti gli approdi. Ma di questo più tardi. Il fatto è elle mentre egli insegnava la lingua inglese a tutta una generazione di triestini (tanto che temeva di non più trovare chi avesse bisogno d’impararla), scriveva a Trieste la maggior parte dei suoi libri pubblicati finora, avendo sempre nel pensiero e negli occhi Dublino. A Trieste furono scritte le novelle Dubliners, a Trieste il Portrait of the artist as a young man, e qui ancora, tornato Joyce dopo la guerra, un grosso fascio di capitoli d’Ulysses; soltanto il dramma Exiles, se ben ricordo, fu scritto a Zurigo: tuttavia nulla di triestino in tanta opera letteraria, compiuta nella città dove la giovinezza dell’artista si era maturata per ben dieci anni: tranne qualche sboccato gergo del dialetto di Trieste gettato nel caleidoscopico poliglottismo d’Ulysses. La realtà viva era per Joyce rimasta lontana. L’uomo a cui piace ogni luogo di questo mondo dove si trovi bene, cioè che gli lasci un respiro di libertà, aveva conservato la sua indipendenza dal sovrapporsi delle vicissitudini esterne. E non già rifuggisse dall’accostamento spirituale coi luoghi che l’ospitavano. Trieste gli era oltremodo simpatica. Amava gli italiani e il vino italiano. Leggeva fedelmente le cronache drammatiche di Giovanni Pozza sul Corriere della sera e le lodava di molto acume. Ma conservava il senso di distacco del benevolo osservatore straniero, che escludeva ogni assimilazione, Era l’uomo abituato a stare in una nazione senza disdire la sua stanza all’albergo, per quanto ci stesse dieci anni. Perfino quel fenomeno letterario nostrano, il futurismo, che eccitò in lui un interesse più vivo per il tono radicale dei propositi e la taglienza del tratto, non credo violasse in alcun modo la sua indipendenza agnostica, decisa a non lasciarsi infautare.

E dico non credo, perchè se ho conosciuto Joyce, non l’ho conosciuto molto. La prima volta che ho avuto da fare con lui, è stato per avermi egli desiderato consigliere di lingua in alcuni articoli, che scriveva per il Piccolo della Sera, in italiano. Non ci trovammo discordi che sopra una parola sola: ma aveva ragione lui, e me ne persuase. Scriveva un italiano non molto articolato, ma che non faceva torto al suo ingegno e non intimidiva la sua originalità. Ora, poiché la sua felice natura gli diede modo di impossessarsi così di diciotto lingue, dal greco antico al moderno e dall’arabo al danese, si capisce che la vita delle nazioni dovesse essere vita d’albergo per il suo cervello. Lanciato sopra un’orbita d’universalità, doveva pure avere un centro di riferimenti individuali: Essa stava in mezzo all’Oceano, ma con una straordinaria consistenza di terraferma. Ivi si potevano depositare e saggiare sul vivo degli uomini le esperienze raccolte nel giro del mondo.

Chiesi un giorno a un inglese, quando Joyce era ancora soltanto l’autore del Portrait of the artist, che cosa i suoi connazionali specialmente ammirassero in quel bellissimo libro. Egli mi rispose senza esitazione: — La prosa. E’ nuovo per noi trovare chi scriva senza affettazione con tanta musicalità, con periodi così plastici e di così melodiosa cadenza. — Qualità d’artista insomma; del «giovane artista» che James Joyce affermava e voleva in sè. L’uomo a cui mi ero rivolto non apparteneva alla specie dei critici; incarnava l’intelligenza nella media cultura normale. Non dunque elementi di scandalo per ragioni di sensualità, o per qualche prima sbottata d’immoralismo beffardo o di turpiloquio (rare nella cri-