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félicité. Quelle tranquillité! Ici vraiment le temps s’arrête. Nous entrons dans le royaume de Dieu».

Si rovescino le espressioni: la volontà diabolica regna nel mondo: ora, sùbito, si entra in inferno. La verità tremenda si rivela per bocca d’un uomo, con l’opera de’ suoi scritti, la quale è come un veleno; chi la gusta, non c’è scampo. O forse solo con un antidoto ultrapotente, con un libro che smascheri l’avvincente impostura, col gridare l’allarme sui tetti, con l’acceso garrire di pensieri opposti. Così i malleabili lettori, la dolce e molle natura umana, sono una palla, giocata a rimbalzo fra Gide e Massis, fra le tenebre e la luce, fra l’abisso e l’eliso. Innocenza, vanità: tronfia sicumera di letterati, fregola di pettegolezzi e di risentimenti. Il romantico giuoco, dove non c’è posta poichè il mondo si salva o si perde a dispetto di tali infatuazioni e rancori, nasconde forse una dolorosa realtà dalla quale invano tenta d’escludersi e di schermirsi.


L’elogio della metafisica.

Massis nei suoi sfoghi e nelle sue tentate ricostruzioni non è solo. Julien Benda riconosce anche lui nella coltura occidentale uno spirito di corruzione, che promana nientemeno da Belfegor; e Massis si avvicina particolarmente alle sue ubbie quando si accanisce contro la musica (le genie de la musique en effet est indépendant de toute réflexion, de toute intention consciente... il n’à que faire des concepts et chasse la raison) perchè «Romain Rolland, en effet, est un musicien»; ma lasciamo andare. Con più vigore e con più frutto tanti anni or sono Pierre Lasserre svolse la sua tesi contro l’antico, clamoroso e presto abbandonato romanticismo francese. Ma queste opere, e molte altre, tutti gli scritti insomma che provengono dalla Francia accademica, a volte anche ricchi di buon senso arguto, di correttezza, di placido spirito educato, quali che siano i princìpi e le ambizioni dei loro autori, non esulano, nei loro effetti, del campo letterario. Massis, come s'è detto, è mosso da un’altra passione; forse, meglio che restaurare nelle lettere una norma e un ordine cattolico, si smania d’applicare ad esse quei principi conclamati che sembra possedere non senza maraviglia e senza sforzo.

Non lo si vuol offendere se si rileva che «il problema della realtà» com’egli lo intende, ci sembra un indizio d'una violenza iniziale, d’un ordine imposto e, noi si direbbe, anche più meritorio, ma il quale non si stanca di suscitare consensi, quasi aspirasse a un’armonia che non la devon decidere le opere e la coscienza, ma che richiede soccorsi esteriori e puntelli. Il fervore del proselitismo è di solito un privilegio degli eretici, che rompono la tradizione e quindi non sentono certezza in sè, se non è garantita dall’eco degli adepti.

Nel fuggire se stessi, in questa ricerca d’un mondo, di una realtà che vien ricostruita secondo una forma prediletta, e noi diciamo romanticamente, c’è un sintomo d’impazienza. La solitudine di Pascal non garba a Jacques Maritain, che di Massis si può forse considerare maestro. L’appello alla ragione, la fiducia in essa, lo sperato consenso degli altri entro la precisa Autorità della Chiesa: la libertà delle anime ragionanti che stanno al loro posto ordinato e fanno parte del corpo comune con coscienza tranquilla, più che esser deduzioni, o verità direttamente insegnate dalla Scienza, posson parere un’opinione, un riparo umano di spiriti che son rimasti scossi e vinti da aspetti o da ombre di quella realtà che vorrebbero così ridurre. Per salvare la realtà, essi accusano gli uomini, il tempo; una lunga e pertinace deformazione, un irrazionale abbandono di principi che ha condotto a successive catastrofi, che ora pesa quasi come una necessità formale dalla quale pochi sanno liberarsi: pochi, ma questi tanto illuminati da farne la diagnosi imperterriti e punto timorosi d’esser soggetti alla stessa passione.

Il primo medicamento predicato non è la fede, ma l’uso dell’intelletto. Che la fede sia concessa a rari spiriti e come un loro privilegio, costoro lo ammettono anche troppo facilmente; non sanno le parole, forse illogiche, forse poco plausibili, che son capaci di suscitarla; non si contentano della virtù dell’esempio, che è cosa santamente «gratuita», e potenza da poterla esercitare senza orgoglio il più umile cristiano. La critica che Maritain rivolge a Pascal, non limitandola, al solito, a un ufficio di spiegazione, magari di complemento, ma come giudizio dottrinario e condanna inappellabile d’un suo «male» è notevole: «En fait néanmoins, il serait puéril de ne pas l’avouer, il n’est pas parvenu au plein équilibre doctrinal, et n’a pas su se maintenir parfaitement dans cette pure ligne formelle à laquelle tendait l’instinct de sa foi. Défaillances accidentelles, déficiences et scories humaines qui sont précisément ce qu’aiment et lui des esprits qu’il aurait haïs, car ils n’aiment pas la vèrité, mais l’homme, et ne cherchent dans les grandes àmes qu’ils admirent qu’à s’aimer eux-mêmes avec plus de concupiscence et de délectation».

«Que dirons nous ici? Pascal, et c’est le principe de toutes ses faiblesses, a une incurable défiance à l’égard de la métaphysique». Strana fissazione: le anime sperdute, che si cercano e si ripiegano continuamente, magari follemente perchè non han trovato appoggio di verità son qui prese a consacrare come dei mostri d’egoismo, che non possono provare amore e desiderio della parola altrui senza che v’entri la volontà perversa di trovar consonanze inattese e di bearsi della propria eco. Quelli che l’hanno letto, quasi tutti hanno letto il Vangelo ignoranti, e molti sfiduciati, della metafisica; non staremo qui a dire quale virtù ne hanno tratta. Saranno deboli, ma, appunto, più di tutti han bisogno d’una norma convincente e vicina. E quale forza dimostra chi, eleggendosi a maestro, nella sua aridità li respinge e li sconosce e non si ritiene mai abbastanza logico e pronto nel condannarli, forse per la paura o per il rimorso della sua debolezza non bene guarita?

Con tali osservazioni, con tali insinuazioni psicologiche si rientra di netto nella schiera dei reprobi, trasportati e vinti da una di quelle correnti fatali, a chi non si argina dietro la salda filosofia scolastica; che sono il seguo e la forza del male di questo secolo. Ma una simile condanna non è per dispiacerci. Proprio perchè siamo tanto lontani dal candido ottimismo da non ricordarci nemmeno più dei suo valore, la critica non solo alle utopie romantiche e al mito del progresso, ma allo stesso idealismo, ci convince e, per quanto siamo riformabili, ci raddrizza; è la legittima parola di uomini ormai disamorati di quegli ideali falliti. Faremo volentieri la patetica osservazione delle stanchezze e delle rovine che nelle speranze umane ha portato, dopo tanti inni, quest’ultimo periodo di guerre e di sconquassi: ne dedurremo che la teoria dove si nega o si allontana il male è un’allegra facezia o una disperata difesa di chi non sa sopportare l'evidenza. Ma non possiamo abbandonare, rifiutare il male di questo secolo, il non ancor sceverato male che ci sta nell’animo per rifarci a un imaginato bene che vige, costruito e perfetto, in una precisa epoca della storia; non siamo adatti a accettare il servaggio mentale a un’ipotetica età dell’oro.

Se poi ci vengono a dire che quel pensiero, con i soli mezzi umani, è giunto alla libertà intera e ivi splende, così che ci tocca soltanto interpretarlo, adattarvi la falsa realtà d’oggi giorno perchè essa ritrovi la sua forma vera e si separi dai suoi errori, risponderemo che questa prospettiva mirabile e i tentativi d’applicazione che se ne dànno ci lasciano di molto scettici; e solo se quel pensiero si farà nostro lo potremo accettare. Discorso questo che gli scolastici non posson gradire, come troppo soggettivo e mosso da un pregiudizio fallace; ma perchè si potesse smetterlo, ci vorrebbe un tale mutamento nella nostra natura, che noi non se ne può ammetter l’ipotesi nè preveder le condizioni. Sarà, benché di poca soddisfazione, una superbia: ma induce a non accondiscendere la persuasione che, staccati dagli entusiasmi filosofici e svezzati della compiacenza nei sistemi, sia facile capirli e magari amarli fino nelle loro debolezze e nei loro attriti.


Il realismo romantico.

Guardato con occhi attenti, che cosa ci rappresenta un siffatto tentativo, così fiducioso in un bene già costruito da imparare razionalmente, così accanito contro il fatale danno delle singole libertà e autonomie? Là dove mira all’arte, non la sfiora nemmeno, scambiandola con una dottrina e una disciplina che, se pesano nell'opera poetica, vuol dire che l’autore noti le possiede. Perciò l’asserita sua base filosofica non riesce a impregnare il pensiero o il sentimento cattolico nelle deduzioni a cui giunge. Chi vuol conoscere un pensiero ortodosso, che quasi sembra ispirato da quelle fonti da cui Massis si stacca con disdegno, ne troverà l’esposizione chiara e definita in un recente opuscolo di monsignor Mario Sturzo intorno alla estetica di Benedetto Croce. Il dissenso, necessario per un cattolico, dai fondamenti delle teorie crociane, vi è segnato; ma non toglie la riconoscenza dell’autore a Croce, il favore all’opera sua di svecchiamento e di rinnovamento culturale, una pratica adesione ai risultati della sua critica, espressa con parole anche più calorose di quelle del suo ideatore. All'identità d'intuizione — espressione monsignor Sturzo premette qualche cosa d’inespresso, ma di fondamentale: un’ispirazione, un «primum» che non è certo logico ma nemmeno fantastico, che si specificherà poi nelle ulteriori manifestazioni dell’animo, modificandosi e perdendo. L’intuizione pura perciò è per lui innaturale; l'arte è l’elaborazione ideale d’un dato momento della vita. L’arte pura è prosa o poesia, secondo il modo come lo spirito, che è uno, agisce; perciò lo spirito ha una sua realtà, che precede l’arte. La poesia è «vita cantata». «Questo canto non è solo il verso; prima del verso è tutta la tonalità del pensiero».

Se qui si riscontra una premura di fondar l’arte realisticamente estranea al pensiero crociano, si tratta però d’un realismo del soggetto, che si stacca definitivamente dalle preoccupazioni oggettive. La parola «imitazione» che ricorre, sebbene con cura circospetta, in Lasserre e Massis, è respinta espressamente dallo Sturzo, il quale nega il modello estetico, i canoni, le regole: e nega altresì il valore esemplare e normativo delle rappresentazione artistica, chiodo nel cervello dei suddetti realisti. Per non toglier nulla della sua secchezza al discorso, riportiamo; «Pure l’arte ha il suo valore... La vita ha anche bisogno dell’arte. E quando sono i momenti della poesia forte, viva, esuberante si cerca l’arte come mezzo per perpetuare quei momenti, o per dirli agli altri, o per dar sfogo alla piena del cuore, come avviene col canto. Ma da sola l’arte non vale la vita, da sola la poesia... è come la storia; la storia non vale l’azione, del resto non ne è che la memoria; la poesia dell’arte strettamente dipende dalla poesia della vita, e tanto è più grande, quanto più a quella si accosta».

Si osservi come le parole, in sè esuberanti e infiammate, sono qui contenute e ridotte secondo un’opinione misurata, che non si lascia ingannare dal vago. L’arte non vale la vita; e perciò, anche se vi si scopre qualche fondamento, sono inutili e pericolose le effusioni, le imprecazioni di un Massis. Non può esser angelica, non è diabolica: l’arte è cosa umana, d’un’umanità che in essa dimentica le cure e purifica i sentimenti, limitando: in una forma precisa.

Lo spirito che in essa cerca, trova, teme un cibo sostanziale, un indirizzo vitale, un inizio è uno di quegli spiriti confusi e opachi come sarebbero i peggiori e i più stravaganti di quelli che si dissero romantici.

La parola del classicismo, come costoro ce la servono, cela dunque un inganno; e si smaltisce col suo stesso tono, tanto e adirata e violarla. C’è un vero e proprio scambio di termini. Appare chiaro che essa si tramuta in intenzione o in dispetto romantico (come il loro cattolicismo si segrega e si riduce nella più rigida forma d’orgoglio nazionale); resta ancora da intendere come, perchè la confusione avviene.

A trovare la scusa e la spiegazione d'un tale atteggiamento lo stesso Massis ci aiuta, e in un modo che sembra irrefutabile. Bisogna, anche qui, riferire:

«Toutes lés litteratures ne créent pas ce milieu bien tempéré, et il n’est pas établi que de toutes un ordre se dégage. Peut-on vraiment parler, par exemple, du genie traditionnel de la littérature anglaise? Le genie n’y est rien qu'individuel. Il jaillit en personnalités hardies, excentriques de leur nature, et par là même d’une variété déconcertante; échantillons disparates d'une même race san doute, mais où tout semble créé à chaque coup, le style, la composition et jusqu'à la langue. Chaque oeuvre surgit comme une aventure que rien ne laissait prévoir, anormale et quelque peu monstrueuse. Aussi bien n’exerce-t-elle pas d'influence au sens où nous l’entendons; et n’existe-t-il pas de culture anglaise à proprement parler. Des oeuvres, des individualités exceptionelles, sans action sur la societé, sinon sans disciples... Aussi la littérature anglaise... se retranche du public».

Tolte alcune esagerazioni d’una visione preconcetta, o indotte dalla cattiva fede, non si ritrova in queste parole la precisa figura dell’artista, quale noi lo si immagina? Poteva dir le stesse cose, o poco meno, dell’Italia; facendo il debito onore inoltre alla nostra tradizione retorica, sulla quale anche il più balzano dei futuristi deve (e sa) contare. Si vede dunque definirsi un contrasto che pareva ideale come un contrasto dell'indole di due nazioni; ogni volta che nel corso di questi appunti s’è usato dir «noi», si era mossi da un istintivo e intimo senso che ci appartiene come italiani. Non si pensava d’impostare un’opposta tendenza battagliera, ma di svolgere una considerazione pacata, d’esprimere un giudizio spassionato e normale su alcune quistioni molto scottanti per i nostri vicini d’oltr’Alpe; rassicurati ancora da questo vantaggio: che siccome le varie nostre impressioni non si compongono in una teoria di difesa nazionale, siamo perciò più vicini a un criterio giusto e applicabile universalmente.

Tale teoria dell'arte obbiettiva e, come dicono, classica e dunque strettamente legata a una teoria di conservazione della compagine sociale della Francia e risulta chiaro come in tutto questo «realismo», s'intoni esso alla morale, alla religione, o all'estetica, il predominio lo tiene la politica, la ragion di stato. «Il en va tout autrement des lettres française» — prosegue il Massis — éminemment sociales, où, sous la liberté infime des styles (ma, di fatto, fino a qual segno è propenso a difenderla?) se découvre un réseau merveilleux de disciplines qu’on ne rompt jamais sans une perte désastreuse». Non diciamo, per carità, che con queste stigmate sociali non si possa far arte; diciamo che quando la si gusta se ne deve prescindere in tutto.

Ma d’altronde un principio così superficiale ed estrinseco si rivolta in suo proprio danno: dalla stessa osservanza e pressura d’un mezzo sociale ristretto e esigente scatta, una pretesa di libertà, per l'artista, che è altrettanto avulsa dalle ragioni dell’arte e perniciosa. L'individuo artista si gonfia della sua propria eco; si stima, e si vuole, riformatore, missionario, vate. L’eccitabile popolo di Francia come una volta nella corte o nelle classi raffinate della società «spirituale» trova nell’arte il suo modello e il suo specchio; e vi ha pure un rapido mezzo di propagarla. Dalla balorda esaltazione romantica al dandysmo affettato, al verismo scientifico, a quest'ultimo assillo, forse più tristo e più segreto, d'immoralismo, sentiamo pesare negli artisti un'ansia, un odio, un amore sociale, che li fa spesso pedanti e smorti funzionari del disordine. Massis vorrebbe essere, tra tante rovine, un morale architetto; non si può negare che Gide sia, nell’intenzione sua appena cosciente, un turbato demolitore.

Queste maschere, noi, o ingenui o accorti, non so, le strappiamo senza rimorso alla lettura; ricompaiono, fastidiose e ingombranti, quando ci mettiamo a riflettere, a analizzare. Che siano un utile strumento, e una necessità della vita francese, non neghiamo; ma è ingrata la fatica di volerle estendere, e ci si può opporre con tranquilla coscienza al tentativo di dar loro forma e valore universale.

Umberto Morra di Lavriano.



PIERO GOBETTI — Editore

TORINO — Via XX Settembre, 60

LETTERATURA


A. Balliano: Vele di fortuna L. 5

F. M. Bongioanni: Venti poesie » 8

T. Fiore: Eroe svegliato asceta perfetto »4

T. Fiore: Uccidi » 10,50

R. Jesurum: Il dono di Lucifero » 5

C. V. Lodovici: L'Idiota » 4

E. Pea: Rosa di Sion» 4

U. Riva: Passatismi» 10

Tutti questi volami di letteratura si spediscono franchi di porto contro vaglia di Lire 52.


SCRITTORI DEL BARETTI

Questa serie comprende i più forti scrittori che si siano rivelati nel dopo-guerra. Non è nella nostra indole metterci a stampare gli scrittori quando hanno già una fama da sfruttare. Noi ci proponiamo di scoprire gli artisti al loro primo libro. Stampando uno scrittore assumiamo di fronte ai lettori un impegno anche per il futuro. La collezione «Scrittori del Baretti» sara per la letteratura quello che sono per la politica i Quaderni della Rivoluzione Liberale.

PRIMA SERIE


1. P. Solari: La piccioncina - Romanzo L. 8

2. R. Antuffo: L’Isola - Tragedia »10.50

3. G. Vaccarella: Poliziano» 7

4. F. Montale: Ossi di seppia - Poesie »6,50

5. L. Pignato: Pietre - Poesia » 6

6. R. Franchi: La Maschera » 5

I primi tre volumi sono usciti. Gli altri tre usciranno entro giugno. Si spediscono franchi di porto contro vaglia di L. B. Tutti gli abbonati agli "Scrittori" del "Baretti" avranno diritto a scegliere un volume fra le altre nostre edizioni letterarie, che sarà loro inviato franco di porto.


Lettere Inglesi.

Hamlet al Haymarket

Mi recai alla agenzia teatrale dove pagai sei scellini e mezzo per andare presso a poco al loggione. Ho il sospetto mi abbiano rubato mezzo scellino. La sera del lunedì mi vestii del meno indecente tra i miei abiti; presi una automobile di piazza e mi recai a vedere ed udire Hamlet, il mio dolce e giovane amico.

Egli riviveva nell'arte di un celebre attore Anglo-sassone di cui per lungo tempo non riuscii a ritenere il nome, ma che per successive informazioni seppi essere John Barrymore.

Haymarket Theatre era gremito del bene educato pubblicò Londinese — in gran parte femmine che desideravano sentirsi ripetere ancora una volta: «Frailty...» con quello che segue.

La tecnica teatrale era ottima. Le scene di una semplicità di altissimo stile — in cui si celavano gli artifici più raffinati. Per tale rispetto oserei dire che il povero William sarebbe stato soddisfatto.

Barrymore mi è sembrato certamente un interprete degno di nota; egli concilia e supera in una geniale sintesi pratica e personale le esigenze ideali della tragedia con quelle realistiche dell'azione. Egli non cade da un lato nella declamazione altisonante dall'altro egli non scivola nella sciattezza della espressione dialogica per cui noi conosciamo certi Amleti più o meno padani che dicono «essere o non essere» come se chiedessero un pacco di Macedonia al tabaccaio. Tale sintesi non coincide però certamente con i savi consigli che il doloroso principe danese dà ai mimi della trappola da sorci.

Anzi si notano in lui alcuni aspetti deplorevoli. Un Ebreo in presenza di una statua di Brama dalle cento braccia disse: Quello si doveva essere un grande oratore... molti popoli parlano colle mani; ma gli Anglo-sassoni nel loro eccesso di compostezza formale, in generale mancano di tale arte. Barrymore o recitava in una immobilità stalattitica oppure annaspava l’aria con enormi gesti di una compostezza lacrimevole. Egli mostrava chiaramente di essere un parvenu — un cafone della mimica degli arti — una persona che per inesperienza (in questo caso probabilmente ancestrale) cade negli eccessi opposti — come chi entri col cappello in testa in una sala della buona società europea, e poi si congedi baciando la mano non solo alle signore ma alle signorine ed eventualmente alle cameriere.

Altro disastro non piccolo: in fine o durante la recitazione Barrymore emetteva dei pff!.. ehh!.. ssh!.. ed altre espressioni più o meno zoologiche o futuristiche, i cui effetti in relazione alla estetica non saranno da me discussi, ma che in ogni modo... non risultano dal testo.

Una vecchia giornalista inglese che siedeva accanto a me, mi spiegò come la figura di Polonio fosse tratteggiata nel Regno Unito in uno stile spiccatamente comico: anche il Polonio del Haymarket aveva una tendenza di questo genere — ma la medesima suffragetta mi disse che non si era mai visto un ministro così serio in Britannia... almeno sul teatro.

Lo spettro faceva pietà: nonostante i vari proiettori e trucchi da sedute spiritiche egli non riusciva ad adergersi nella maestà ultramondana del Re assassinato e tradito.

Ofelia — a quanto mi fu detto, era la migliore Ofelia inglese; potrebbero condannarmi a due eternità di vita per farmelo dire, ma ne ho integralmente dimenticato il nome. In lei la ipocrisia nordica perveniva ad una acme stupenda ed in tutte le scene di ingenua femminilità, ella raggiungeva l’impossibile per una artista di teatro: suggeriva l’impressione del suo candore interiore; per un buon quarto d’ora io giunsi persino a supporre implicitamente che ella potesse essere vergine... del resto certe cose non si sanno pressoché mai positivamente.

Nella pazzia ella non riuscì: ella dava una completa impressione di gioiosa incoscienza e mostrava di essere così completamente folle che non ci si accorgeva più della follia medesima. Secondo la mia barbosa opinione in tale caso occorrerebbe una esecuzione doppia e contemporanea — direi quasi su due piani di coscienza. Sul primo una serena giocondità infantile, sul secondo (che deve essere inespresso ma presente — non appariscente ma come intravvisto nella penombra) l’incubo enorme della follia tragica. Senza questa diade — non si riesce a nulla nel caso specifico che ha un riscontro solo: nelle «Baccanti».

Amleto è morto. Disse: il resto è silenzio. Per noi il silenzio non esiste. In questo secolo la moltitudine anarchica delle percezioni materiali isterilisce senza remissione il segreto fiore dell’anima nostra.

Ahasvero.


G. B. PARAVIA & C.

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Poesie di Ossian

a cura di GUSTAVO BALSAMO CRIVELLI. . L. 1O

Nessuno ignora la grande influenza che la poesia dei Macpherson ebbe su tutte le letterature nella seconda metà del settecento e nel primo ottocento. Le migliori poesie — che da tempo non sonò più pubblicate - appaiono ora nell’aurea traduzione dei Cesarotti. La scelta è stata fatta con sano criterio e fine gusto da Gustavo Balsamo Crivelli che ha annotato il testo sobriamente ed ha dettata una prefazione come ogni sua chiara e dotta.

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PIERO GOBETTI, direttore responsabile.
Soc. An. Tip. Ed. «L’ALPINA» - Cuneo.