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L’umanità di un santo Jean de Pierrefeu, richiedendo a gran voce, duo anni or sono, la canoninazióne di Plutarco, non faceva che simboleggiare la nuova mania biografica impadronitasi del pubblico e degli scrittori. Il culto degli eroi, l’horo-worship carlyiiano trionfa. Collezioni do|>o collezioni rovesciano sul mercato medaglioni, profili, figuro d’ogni tempo o d’ogni colore. Non si assisto senza raccapriccio a questa divulgazione sommaria, pretenziosa, tendenziosa, spropositata dello immagini ’del passalo. E quando come nel caso del settimo centenario francescano, il ciclono biografico porta seco le più nauseabondo abborracciature, un gran sospiro di sollievo esco dal petto di chi si trova dinanzi un’opera seria, meditata, severa: la «Vita di San Francesco d’Assisi», di Luigi Salvatorelli (Bari, Laterza ed..).

L’attività propriamente politica di Luigi Salvatorelli, ha fatto dimenticare, od ha nascosto ai più, il reale temperameli to dell’uomo o dello scrittore. Anzitutto, Salvatorelli ò uno studioso di storia delle religioni, abituato allo ricercho scientifiche, scrupoloso nel documentarsi, con quell’amoro per i libri gravi c i soggiorni in biblioteca cho è il seguo inconfondibile di una vocazione. Il curioso d’arto e di buona letteratura ha sopravissuto ncH’erudito e nel politico.. Ricordo cho, nel pieno dello polemiche, quando l editorialo giornaliero più pesava e portava, Salvatorelli, tracciata con la sua calligrafìa contorta le ultime cartelle, prendeva sottobraccio uri classico fresco di stampa della Guillaume Bude, e s’inoltrava per qualche viale silenzioso, con Lucrezio o Virgilio. Come l’abito dello studioso giovava al polemista, così oggi l’eapcrionza politica vissuta ha smorzato in Salvatorelli il gusto troppo vivo per gii schemi, lo teorie, lo ha spinto a riguardar gli uomini.

Umbro di nascita egli ha potuto studiare San Francesco in rapporto alla sua terra, come voleva Renan, e considerarlo con la lucidità c l’imparzialità dello storico degno di questo nome, che si riterrebbe colpevole ove si permettesse un’allusione o una deformazione partigiana. Cosicché, tra i salti di gomitolo dello Chesterton — troppo affacondato a scrivere per aver tompo e modo di leggero — le effusioni di uno Schneider, per cui San Francesco b una Duse del duecento, le scioccherie linguaiole di Giovanni Papini, il convertito di Vallecchi, o — che so io — le stanche grazie di Maria Luisa Fiumi, fra tutta questa gente in fragola di francescanisnio e di spiritualità da Grand Hotel, c’è stato qualcuno che ha composto un libro in cui mancano misticismo ed effusioni, singhiozzi ed esclamazioni languide.

Qualo miracolo 1 Il grando merito del biografo è stato quello di ricollocare Francesco nel suo ambiento, di farne una creatura umana, un mercanto del Duecento, che si converte, gradualmente ha coscienza della propria missione, e stupendamente la compie. Cessano gli aloni irreali della leggenda, e subentra la gran luce serena della storia: orbene, la figura ilei Santo s’ingigantisce.

Nei balbettìi dei veri e falsi ispirati, intenti a parafrasar motti e à rievocar figurazioni più o meno simboliche finiva per svanire il vero carattere del santo. A colpi di turibolo, si nascondeva il volto di Francesco. Col pretesto di ripetere il suo insegnamento, si creavano delle dottrine di maniera che potevano persino subire l’infiltrazione e la contaminazione dannunziana. L’ultimo Ottocento aveva innestato lo pseudo misticismo nell’amore: il primo Novecento (Rolland riecheggiando Tolstoi) lo cacciò nella politica, c — con Giovanni Pascoli — tentò di immetterlo nelle sorgenti antiche.

Bisognava far giustizia dei commentatori, degli epigoni, dei restauratori, ritornare alla nuda eloquenza dei fatti comprovati, distruggendo le incrostazioni letterarie. La lebbra imaginifica è caduta, alfine.

Il San Francesco di Salvatorelli non è il San Francesco dei «Fiorett i»: ecco l’audace novità.

E’ un uomo che ha tentato di vivere nel proprio tempo, secondo il Vangelo c che vi è mirabilmente riuscito, senza atteggiarsi ad imitatore di Cristo. Il giorno in cui ha compreso la necessità,per la comunità intorno a lui raccoltasi, di cntraro nella Chiesa regolare, si ò tratto in disparte. Non era una rinuncia, e nemmeno un’abdicazione, bensì il riconoscimento che la grande lezione morale è costituita dall’esempio, dal sacrificio personale: tener fede allo spirito, q lasciare che Roma e la vita terrena si organizzino come meglio possono. Predicazione, non fanatismo.

La leggenda e l’agiografia non ci facciano velo: il fenomeno francescano fu puramente individualo, tanto è vero che l’ordine dei minori finì per confondersi, in pratica, con gli altri, e che i più vicini alla mentalità di Francesco, privi del suo fascino personale c della sua originalità, divennero romiti. Scrive magnificamente Salvatorelli: «Nessuno prima di Francesco aveva portato gli uomini di questa terra così vicini a Dio; e nessuno co li avrebbe riportati dopo di lui. Eppure, nessuno era stato più vicino a loro, più simile a loro. Con lui, essi avevano visto passato Gesù nello campagne, intrattenersi con loro, dividere la loro esistenza.

Egli aveva innalzato i loro occhi al ciclo’e santificando la terra, promesso il paradiso, e ihtanto ri benedétta e consacrata la vita». Per un singolare equivoco di letterati o di mistici si continua a parlare di spirito francescano, di dottrina Francescana, come se questi esistessero realmente, o derivassero dai «Fioretti» o dal «Cantico del Sole», codici di una nuova fannia di vita. In realtà il francescanesimo non è cho la predicazione dei precetti del Vangelo, o chi cerca simboli o insegnamenti nei «Fioretti» è tin ozioso dilettante, pauroso di ricorrere alle fonti. Certo, è assai più comodo e poetico imbandire del lattemiele mistico alle belle signore cho non presentare loro le nudo pagine dei Vangeli; rievocare «il più italiano dei Santi*?* più elegante clic non dissertare del mercante umbro ispirato da Cristo e indottosi a vivere di elemosina c a cibarsi di rifiuti o di vecchi tozzi di pane. Anche l’incontro con Chiara, tanto sfruttato dai disonesti esegeti, non dovette essere cho un episodio, in una vita tutta presa dall’ansia del divino, e giustamente Luigi Salvatorelli ne riduce le proporzioni.

Nella società comunale del Duecento, fra una civiltà in formazione, nella rete dei conflitti politici ed economici, in un mondo ancor rozzo, tumultuante fra la Chiesa c l’Impero, mentre il clero era distante dal popolo, l’esempio di Francesco doveva colpire gli animi, pener trarc le coscienze. Quanto di romanzesco v’era nell’abbandouo dell’agiatezza, in una conversione contrastata, aiutò l’immaginazione popolare; o la predicazione dei principi del Vangelo — i meglio adatti al sentimento dei più — fece il resto. Francesco non raccontava nulla di nuovo o di straordinnrio, divulgava con la vita e la parola il cristianesimo nella sua forma più pura, semplice, universale. Vicino agli umili come nessuno de suoi contemporanei, era un’incarnazione vivente dì Cristo Per questo lo compresero, l’amarono, lo venerarono. Poi-, vennero i seguaci a fondar le basiliche, gli scribi a metter in carta la leggonda, i farisei ad interpretarla secondo i gusti dell’ora. Nessuno volle ricordarsi che la grandezza del santo erà nella sua umanità, la vera sua gloria «ell’aver ricondotto il senso del divino fra gli uomini.

ARRIGO CAJUMI.

Rileggendo Bruno Fra tutti i grandi italiani, forse Giordano Bruno potrebbe rappresentare con maggiore cvidenza le lince fondamentali — prominenze, bernoccoli e rientranze — di una maschera che ha subito scarse mutazioni sostanziali, cd è ricomparsa o ha rifatta la sua tragica parte per molte volte negli scenari mutevoli della storia.

Il suo c, prima di tutto, un grido di volontà esasperata al parossismo, un «eroico furore» che non ha tregua, perchè un dio gli parla nell’anima e lo fa assurgere alla santità: ■ Da sognetto più vii dioegno un ‘ho» Anche a Socrate parlava nell’anima un certo misterioso «daimon ti» come con pacato orgoglio c fino misura disse ai suoi giudici ateniesi: ma la sua natura di popolano e la sua acutezza ironica di greco gli vietarono di insistere su quel privilegio.

Bruno invece si esalta della sua interna voce, senza nessuna accortezza: «/.asciate Vomire ed abbracciate il vero, non cangiate il presente col futuro»-, egli esorta gli uomini risolutamente.

Ma l’amore eroico, che solo rende possibile lu conquista del vero, è privilegio delle naturo superiori, insane, perchè hanno più intelletto o più luce del volgo vile, al quale non resta altro da faro che ascoltare a bocca aperta il diro dell‘invasato: «.adunque, volgo vile, al vero attendi, — poryi l’orecchio al mio dir non fallace — apri, se puoi, ijli occhi insano e bieco».

Se questo volgo anche con lo spalancare gli occhi non vede niente, badi almeno di non seccare e di lasciar fare a chi si? ne intende: «ne noe vcretis, ine pii; noti vos, scd. doctos tatù grave qneril opus». E’ un disprezzo deciso, quasi di nervi, intollerante, furibondo: «l’univer■ sitade che mi dispiace, il volgo ch’odio... non essendo magnanimità che li delibera, non longanimità che li inolia, timi sjtle.ndor che li illustra, non scienza che li avvive».

Dionisiaco impeto profetico, che riapparirà nella nostra storia: oltre che nell’immaginoso Gioberti, ricostruttore di un nuovo mondo, e in Mazzini, primo papa di una religione inventata da lui, perfino in D’Annunzio col congiunto orgoglio di aristocratico spirito, o nei nuovi filosofi celebranti la vita che si fa per opera tutta di volontà umana, iniziatrice di un secolo di splendore, inculcalricc violenta c appassionata, nelle teste più refrattarie o nella materia più sordn, di assoluta spiritualità, che tutto trasforma e sublima in una nuova primavera umana.

Atteggiamento battagliero c violento, parlare per bocca mortale a nome di Dio stesso, importuno necessariamente assenza di chiaroscuro, di gradazione, c di gArbo. 11 sublimo è fuori d’ogni proporzione e simmetria. Una’maschera così tragica non spiana mai la sua smorfia dolorosa; può soltanto ghignare tra il pianto. Aveva ragione il Gentile a dire,*che i nostri profeti non ridono mai. L’espi il appari iene solo al tipo francese cho ha il senso continuo o? vigilo del relativo, u misura la realtà tutta col metro razionale «Mia eliiarczza o distinzione. Tato è il carattere saliente di un genio, che non si lascia mai invasare o possedere totalmente dalla violenza ragionevole e sgarbata di un demone. Con la stoffa di Bruno si fanno i santi della scienza o della patria, non nini opera di- equilibrio o di buon gusto. Nè la sua filosofia, nè la sua produziono di scrittore c di poeta serbano quella limpidezza di forme n di pensiero, quella chiarezza di sviluppi c di contenuto, quella trasfigurazione della realtà bruta assorta a serenità e a purezza, che è carattere proprio delle opero classiche. C’è in Bruno il presentimento confuso di Spinoza, ma non la sua superiore, Bieura visione, la sua lenta, paziente c geniale progressione di pensiero. Il vecchio frasario petrarchesco, il luogo colmino, inceppano ad ogni momento io svolgimento di mia speculazione, nuova e vigorosa. Anche nei dialoghi più purameuto filosofici, dove non arriva por via di analisi egli salta di volo con l’immaginazione, o continua a ragionare attingendo motivi dall’intrinseco del suo pensiero, come da fantastiche citazioni c interpretazioni bibliche, da oscure allegorie, da racconti mitici bizzarri.

Così lu ispirazioni tormentate c profetiche di Mazzini e Gioberti risentono di simili difotti, di spro]>orziono e di oscurità Immaginazioni pesanti e fastidióse intcrroinj>ono le loro battaglie politiche c speculative: le fantasie di un Primato, perfino geografico, o di’ una Università futura delle nazioni si accompagnano ad un pensiero vivo e storicamente concreto, che ebbe mia importanza decisiva nel progresso italiano del secolo XIX. Retorico vecchiume o lampi di originalità, ricordi egualitari o devozioni bigotte si alternano, si accavalcano senza fondersi nia«, unità di visione ed a chiarezza di pensiero.

Un siili ilo discorso si potrebbe attagliaro ai modernissimi pur col’loro «infallibile gusto»

nel tentativo di risolvere il problema con la distruzione totale del passato.

II vecchio difetto di stile è ricomparso, aggravato cd esasperato da un vago presentimento di impotenza e dalla necessità di ricoprirti sempre più col vecchio ciarpame il nucleo di una originalità dubbia cd equivoca. Ne è uscita una incerta miscela di prediche e di linguaggio sportivo, con un profumo curioso di sacrestia o di sud ore olimpionico, insieme. IJ passato è l’immaginosa fioritura teologale e profetica, e il nucleo avvenire è il senso sportivo o l’audacia volontaristica della nuova generazione. E’ un malgusto, quindi, cho ha una lunghissima storia:

a ih il de nihiln fit.

Ma, per essere «fastidito» dalle ciarle del volgo, Bruno non è un astratto contemplativo cho viva fuori del mondo, nel vago sogno di stringere mi inutile Uno tra logiche tenaglie. Quella sua natura impastata di violonza c di amore di Dio, quel suo mirare diritto a una meta cho tutto lo infiammavi, senza concessioni e galanterie per nessuno, quel suo non posare mai di anima inquieta cd affannata, non sono espressione di un sopranioudano spirito, intento a una occupazione lontana ed estranea alla storia vivente.

La serietà del suo spirito affannato non si concilia col dilettantismo inconcludente di chi volesse iiolarsi dal rcalo por operare in una sfera riservata o distinta, senza echi nella vita.

In verità, la sua intransigenza quasi settaria fu puro il mezzo por uscire dall’equivoco beffardo della doppia coscienza, cho aveva sanzionata la nascita ufficiale dell’ipocrisia c doll’oratoria italiana. Al Tribunale veneziano egli si inchinò perchè era ancora irretito nella teoria della doppia verità, clic aveva ereditata dal secolo: la verità perii volgo o quella per il filosofo; l’una ohe ha lo scopo pratico di guidare i «rozzi popoli»

c si esprime negli istituti storici mutevoli* leggìi consuetudini, religioni positive, l’altra cui i filosofi si sollevano razionalmente taci solfiti della cogitativa facilitiate».

A questa doppiezza Bruno non potò reggerò’; 10 svolgimento del suo pensiero e della sua vita tendono a superare la contraddizione. Quando la missione, cui egli si sontc chiamato, si può compiere e sublimare col sacrificio della vita, allora non piega più, col martirio risolve <jon8ciamcnte l’antinomia.

Col martirio egli volle appunto significare che una sola è la verità, sia por i «rozzi popoli»

corno per gli «insani», e una sola la religione, tosi per i contemplativi, una la coscienza, senza divario fra teoria n pratica, fra intelligenza e fede.

Le sue oscurità, la sua superba solitudine non furono dunque iniitilu trastullo di uno spirito strano, ma accompagnarono lo sviluppo di un concreto pensiero, che fu il germe di una vita nuova, di una lenta ricostituzione della coscienza italiana. Il suo odio per il volgo celava 11 suo amore profondo per una verità universalmente umana, il suo dispettoso isolamento dogli uomini non era elio l’espressione di un drammatico dissidio interiore, sanato con la soluzione più eroica: «ch’i’ ctfdrò morto a terra ben tu’aerar go - nut quid vita fut reggia al viver min/», Col suo rogo egli si-’conquista consciamunte l’immortalità.

Anche nella predicazione di Mazzini o di Gioberti si riaffaccia la teoria della doppia verità che i secoli di servaggio o di dominio della Chiesa, avevano perpetuato. Mazzini predica la rivoluziono universale per scuotere, in realtà, soltanto gli itnliuni, fabbrica una meravigliosa società futura per raggiungere il programma minimo, unità della patria, predica la Repubblica mondiulc per non lasciar naufragare le rivoluziono italiana in una affermazione regionale e sabauda. Gioberti fabbrica castelli o sogni imjiossibili, in un linguaggio ispirato c cornino-, vento, |>or crcaro un partito moderato a base larga e seria. Ber (I volgo si costruivano Io belle immagini splendenti, perchè il volgo ha bisogno di csscro spinto con meravigliose promesse e incitamenti messianici, per decidersi a muovwo un passo.

E’ una |>osizioue alfine a quella di Bruno oho si rinnova con essi, pur dopo l’e»|>orieiiza democratica della rivoluzione francoso c lo aspirazioni umanitarie rifatte o risentite in tomiini mistici o religiosi. Como il Bruno, così Mazzini 0 Gioberti risolvono e superano la equivoca oredità con la serietà del temperamento, con una passione profonda che dà vita, realtà o concretezza allo assurde grandezze sognate. Le bello idee non restavano soltanto noi libri c nelle prediche, ma vivevano nell’aziono o nel sacrifizio, purificate dalle scorie magniloquenti e‘ dai ricordi di insincerità o di doppiezza.

• # • Anche oggi, gli insani, perché soprasanno, si sforzano di creare il mito, come si dico, per i «rozzi po/toli che. deano essere, governati» c si riunova l’antico equivoco che il rogo di Bruno pareva avesse abbattuto e la predicazione di Mazzini e di Gioberti risoluto in una rinnovata cultura e in un originalo pensiero.

In più c’è una freddezza nuova, ohe è forse indizio di maggior consapevolezza e di più accorto senso del reale. Credo che sia il clerioalismo vittorioso; come un nuovo ritorno. Ma è motivo di consolazione forse, il sapere che il nostro stile di oggi c prodotto di una linea di sviluppo tipicamente e inconfondibilmente italiana.

GIULIO ZORZI.

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