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IL BARETTI

MENSILE Le edizioni del Baretii Casella Postale 472 TORINO ABBONAMENTO per il 1926 L. 10 ■ Estero E. 15 - Sostenitore L. 100 - Un numero separato L. 1 - CONTO CORRENTE POSTALE Anno II - N. 5 - Maggio 1926 Fondatore: PIERO GOBETTI SOLMI: Note d’arte moderna — ORESTE: Danze — PILLOLE: La scuola del sen. Rastignac — Solarla —

L’AMENDOLA FILOSOFO La parte presa da Giovanni Amendola nella filosofìa italiana del Novecento è strettamente connessa con il periodo formativo della nostra nuova cultura che va dal 1903 al 1913, è anzi rinchiusa cronologicamente in quel decennio.

Accanto ai nomi di Calderoni e Vailati, il suo compie la triade dei pensatori che rappresentano il pragmatismo critico in Italia.

Scarse le linee esteriori, scarsa la mole tipografica di quest’opera. Amendola si laureò in filosofia nel 1904, e acquisì la libera docenza in filosofia teoretica presso la R. Università di Pisa nel 1912; pubblicò una serie di studi di carattere tecnico (Filosofia e psicologia nello studio deirio; La categoria;) e acute rassegne critiche sulla filosofia italiana nella Revue de Métaphysique et Morale, colla’borò attivamente al Leonardo, alla Voce, al Rinnovamento, e a varie riviste filosofiche, mantenendo sempre un atteggiamento personale, che si era cominciato a definire nell’opera sulla Volontà e il Bene (1909) con caratteri propri.

Nel 1911 diresse anzi in collaborazione col Papini e in gran parte compose egli stesso, una rivista sua, L’Anima, dedicata essenzialmente a problemi di carattere etico e religioso. Come storico della filosofìa si occupò con molta serietà e perizia dei pensatori inglesi e francesi della corrente psicologica e associazionistica, da Berkeley di cui tradusse la Teoria della Visione (pubblicata sol dopo la guerra) a Maine de Bìran, di cui espose nitidamente in un bel volume le dottrine.Nè mancava in lui una forte e maschia vena di letterato e di critico di cui si trovano i segni più cospicui nel volume di prose da lui raccolto col titolo litica e biografia (1914) e negli studi dedicati a Leonardo e a Michelangelo, di cui commentò le poesie. L’esercizio del giornalismo e della politica militante sospese poi, ma solo materialmente, questa serena e raffinata attività: e ne filtrò i risultati in una nuova esperienza. Ma essa aveva già recato agli studi filosofici un valido contributo:

se anche non uscì dalla cerchia degli iniziati e del gruppo vociano, verme subito apprezzata e seguita con interesse da òhi poteva intenderla.

Il pubblico colto non ne doveva conoscere i frutti se non in via indiretta, e’ più tardi; un paio di volumi tuttavia La volontà e il bene, Etica e biografia, furono abbastanza letti. E del resto, non è il numero dei lettori nè la risonanza mondana che possa aver peso nella valutazione di un filosofo: poiché i filosofi patiscono un poco, in misura più ristretta della fortuna delle loro idee, la cui penetrazione è spesso lenta e si svolge per vie nascoste all’occhio profano.

Per capire la posizione di Amendola, si ricordi che il risveglio della filosofia italiana nei primi anni del secolo non fu rappresentato dalle grandi costruzioni sistematiche e dalle complesse rivalutazioni storiche del Croce prima, e poi del Gentile, del Martinetti, del Varisco; nè dall’andamento più ricco e vivace degli studi filosofici nelle varie «Scuole». Un merito non indifferente per quel risveglio, anche in senso speculativo., bisogna riconoscere al movimento pragmatistico, così nella sua forma culturale, a cui diedero opera gli scrittori del «Leonardo» e della «Voce», come nella sua forma critica e speculativa, al cui sviluppo l’Amendola contribuì potentemente. Chè anzi il pragmatismo, nato nella cultura filosofica anglosassone come reazione alla idolatria della scienza, di cui essa negava il valore assoluto e dimostrava la natura essenzialmente utilitaria (e in questo senso lo svolse tra noi specialmente il Vailati) assunse subito nell’opera del Calderoni e dell’Amendola quel più profondo aspetto lirico-religioso, di colorito spiccatamente romantico, che rappresentò la fase più alta della sua evoluzione e il suo titolo maggiore di fronte alla filosofia contemporanea.

Amendola, fin dai suoi primi saggi) criticava con limpido acume la concezione intellettualistica della vita, che vuol chiudere l’attività dello spirito negli schemi predeterminati di «pallide, esangui» categorie. La psicologia tradizionale si rilevava, sotto le sue analisi, un giuoco di fantocci spirituali, che raggiunge lo.

scopo di presentare una veduta complessiva superficialmente chiara della vita dell’aio» solo a patto di sacrificare la fluida ricchezza degli stati d’animo e dei contenuti concreti di cui quest’aio» intesse la sua trama. Il filosofo cercava di riconquistare, attraverso la dissoluzione degli schemi, questa intima e concreta real" tà dell’individuo, nella quale si radica la persona umana, in tutta la sua dignità e in tutto il suo valore: una realtà di squisita finezza, di delicatissima costituzione, risolubile senza residuo in toni puramente qualitativi: la vera realtà, lo spirito. In questo punto di vista di Amendola già affiorava invero una delle esigenze più profonde della filosofia oontemporanea, che oggi appunto si affatica per coniugare le più sottili trame della dialettica con l’infinita varietà degli atti e dei momenti in cui consiste il Teale.

Ma la coscienza di questa molteplicità di natura qualitativa di cui si alimenta il fiume dell’«io» genera il problema della sua unità.

Come si collegano in una cerchia saldamente organica i fuggevoli, evanescenti toni della vita?

Come scaturisce dal loro instabile flusso l’individuo, la piersona? Ora Amendola, sviluppando il suo pragmatismo, trovò questo centro organizzatore nella volontà: essa fa convergere insieme le multiple forze della vita, essa trasforma il vago indeciso pulsare della coscienza in ritmo creatore, essa è la generatrice della dignità umanae dei valori spirituali, il vero «io». Perchè io Sono in quanto voglio; e si deve intendere questo’«voglio» nel senso più concreto ed effettivo della volontà vivente e operante nel mondo.

Posizione di cui è facile indicare le origini in momenti culminanti della filosofia moderna e contemporanea (la teoria Kantiana e fiehtiana del primato della ragion pratica, la filosofia dell’azione predominante nello spiritualismo francese); ma non scevra ancora di difficoltà (donde nasca questa volontà, in quale relazione — Rovella — Panali latrati.

essa stia col mondo, come possa dominare il camfrutto di una atmosfera europea; che1 le inpo della conoscenza) e di nascoste tendenze verso la religiosità e la trascendenza, che nell’Amendola anzi si resero tosto palesi.

fluenze e i contrasti più disparati sono provvidenziali per i geni chiamati a rinnovare.

Jacopo Bellini reca innata in sè l’esperienza Pure, il valore etico di questa filosofia è indel mosaico bizantino e del segno gotico (che calcolabile. La massima in cui essa viene a concretarsi, «la volontà c il bene», rappresenta è il punto di partenza dell’ispirazione dei Vivarini), ma approfitta del duro contorno esaveramente l’acme dello spirito moderno, della -1l’-...: J-1Ì- 1 — :

gerato fino alla rigidità della Scuola di Squartante volte già iniziata (col Cristianesimo, con la Riforma e il Rinascimento, con Kant e il romanticìsmd). L’opera principale di Amendola in cui quella massima è vivacemente svolta, rappresenta veramente la chiave di volta della sua filosofìa e della sua polìtica. Concepire la volontà come il bene, unico bene essenziale e positivo, significa infatti considerare le conseguenze, le circostanze, le opportunità, le utilità come elementi affatto trascurabili e secondari di fronte alle esigenze della dignità personale, dell’azione morale. Male è non agire; male è cedere, piegarsi; la personalità umana vive in quanto si afferma, lotta, resiste contro la bufera anche a costo di spezzarsi. E’ questo il nuovo stoicismo del mondo moderno; fu questa non solo l’idea, ma la legge della vita di Giovanni Amendola. Il filosofo si arresta cauto a jxmderare le incertezze che lascia ribollenti dietro la sua scia questa superba dottrina, le distinzioni che essa trascura, le.esigenze critiche che le stanno contro; il politico si preoccupa delle perturbanti illazioni che se ne possono ricavare a confronto della coscienza normale e mediocre di un’immensa maggioranza. Ma quando noi la vediamo attuata, nella sua natura splendidamente aristocratica, come l’abbiamo vista attuare da Amendola stesso nella sua operosità quotidiana, — le difficoltà si attenuano, i dubbi teorici svaniscono, l’interprete e il critico si trasformano in ammiratori.

Uno dei Verri.

La pittura veneta del ’400 La pittura veneta.

La Venezia del ’400 6 la città delle sagre e delle processioni: questo carattere si ripercuote nella sua arte, arte di lusso. La pittura veneziana non ha un periodo mistico: dal bizantino passa subito alla decorazione c al gusto per la pittura narrativa. Il giottismo di Guariento e di Jacobel del Fiore non ha fortuna (il mosaico al posto doli’affresco). Il mosaico può continuare insieme col formalismo ecclesiastico sino al ’400 perchè la vita veneziana occupata in attività pratica manca di libera critica, di poesia, di ambiente letterario; è dominata dallo spirito popolare, dall’acquiescenza alle idee fatte. Venezia, come Genova al tempo del suo massimo fiore commerciale, nou può avere una civiltà (tutt’al più, oltre i commerci, un’architettura e un’arte- decorativa).

Questo sembra apparentemente paradossale, ma invece ben si comprende se si pensa che i popoli orientali coi quali Venezia era in contatto erano ormai in decadenza. Gli Arabi avevano già data tutta la loro civiltà ai popoli mediterranei nell’alto medioevo. I Turchi non portano nulla di nuovo. Venezia dunque nel ’300 e in parte del ’400 è il centro d’Europa solo come centro di passaggio. Una civiltà a Venezia può cominciare soltanto quando la Repubblica viene a partecipare alla vita della penisola e si incontra col Rinascimento in pieno fiore. (Ecco la ragione politica del fatto che i maestri dell’arte a Venezia siano Donatello, Gentile da Fabriano, c, per i Veneziani, Antonello da Messina e Giovanni di Colonia).

L’occupazione di Padova creerà la cooperazione Mnntegna-Bellim, uno dei fenomeni più gloriosi c più significativi della nostra storia.

Jacopo Bellini.

Benché tutte le sue più grandi opere siano andate perdute, Jacopo Bellini si può considerare come un potente pittore. Vivono in lui risorse precise di creazione. La sua pittura è nuova; ossia ha un’originalità bizantina, ma s’inquadra in un gusto e in una curiosità di perfetta rinascenza. Nei suoi disegni ci sono già le luci, la chiarezza della pittura veneziana.

Le Madonne invece, le sole pitture che ci siano rimaste- di lui, benché siano molto più agili delle rigide calligrafie di Squarcione, hanno ancora elementi tradizionali in certe regolarità di contorno, negli ori, nella disposizione degli angeli. Eppure già s’intravvéde il tipo della Madonna di Giovanni Bellini (Louvre, Venezia). Nei disegni di Jacopo Bellini ciò che sorprende è la sua audacia di progettista, la sua curiosità di effetti e di composizione, la potenza del segno ridotta a una singolare grazie di rapporti. I suoi soggetti Iranno dato idee ai pittori di tre generazioni. Egli ha creato un ambiente spirituale in cui si è potuta svolgere la Scuola veneziana. Se è difficile dare; i documenti della sua perfezione di pittore, infinite e inconfutabili sono le prove della sua genialità di creatore. Egli è lino di quei capo-stipiti leggendari come Uberto van Eyck. La storia della sua formazione è veramente una curiosa e verace leggenda clic sta quasi a simboleggiare la fortuna della sua famiglia, come di tutta la sua stirpe. Suo padre è l’artiere non ancora artista, ma Jacopo si trova proprio per un’eredità alla soglia dell’arte.

Egli ha la gioia dell’uomo padrone del mestiere; non- è clic le sue abilità tecniche siano formidabili, anzi gli ostacoli che egli è in grado di superare non sono grandi, ma lm la fortuna di non potersi proporre degli ostacoli che non sappia superare. Non fa prove di bravura, ma è sicuro di sè. C’è in questo proprio Patteggiamento sano dell’operaio eseute da raffinati problemi e da duri ideali, ma clic ha saputo dare un ritmo c tuia consolazione spirituale alla sua opera. In questo creatore primitivo che cerca mari non navigati, non c’è senso del mistero nè tragedia d’iiiipotttuza. E anche questo sarà un dono della razza, immune dalla malinconia degli Umbri, come dal senso della morte precoce dei Fiorentini.

Non si può dire clic Jacopo Bellini sia un pittore colto, eppure egli è completamente cosciente, e tutti gli elementi della cultura de!

suo tempo seno familiari, noti diremo al suo cervello, ma alla sua mano, alla sua pratica di pittore. E’ una forma di cultura innata che non si può dare se non a Venezia per gli incontri c i contatti, le esperienze che dà la città commerciale. Abbiamo in lui una prova luminosa che la grande pittura è quasi sempre senza riceverne influenza. Vive a Venezia, a Ferrara, a Padova, a Verona. Gentile da Fabriano lo inizia ai segreti di una pittura già secolare. Conosce Pisanello. E’ probabile che nelle1 sue peregrinazioni abbia incontrato Van der Weyden e Paolo Ucello. Influenza Man^ tegna, lo libera da Squarcione, ed è poi abbastanza duttile da capire e tentare di assimilare i formidabili elementi di genialità che scorge in Mantegna. Ivi’ tutto questo fuoco di esperienze, con la sua innata aspirazione alle grandi costruzioni, rimane mirabilmente sobrio. E’ felice anche nella vita pratica; la sua fama occupa tutto il Veneto, tutti richiedono la sua opera. Nulla va disperso — i suoi due figli impareranno da lui a essere1 grandi pittori — Giovanni, il figlio illegittimo che egli ha saputo rendere felice come non ne ha avuto che gioie, realizzerà pittoricamente gran parte del suo programma. Dando in moglie a Mantegna una sua figlia, Nicolosia, egli sembrava intravvedere un vero destino di storia pittorica. I rapporti tra Mantegna e Giovanili Bellini sono infatti importantissimi per il futuro.

Jacopo Bellini non è dominato dai classici:

si vota al realismo, studia il nudo, capisce l’architettura.

Giovanni e Gentile Bellini.

In Giovanni.c’è più sensibilità moderna, in Gentile prevale il senso dello stupore di’ fronte allo spettacolo: Giovanni è un pittore di psicologia, Gentile di decorazione. In Gentile le ricerche di colore sono sopratutto di atmosfera e di luce. Gentile è il primo pittore di Venezia, della città. Lo supererà Carpaccio. E’ immediato, osservatore ingenuo e sorpreso, non ha ancora le astuzie di Carpaccio. Il suo orientalismo è autentico. La sua capacità di segno e di psicologia è visibile nel ritratto di Maometto in cui egli si è veramente superato e nei donatori del miracolo della Croce. Ma la sua curiosità è di natura estetica.

In Giovanni ci sono più preoccupazioni, ancora in una piano di primitivo, ma con commozione elaborata. Bellini è il primo pittore pensoso ed attento a tutte le emozioni. La sua arte non è facile: non è il dramma di Mantegna lira piuttosto una ricerca umana e melanconica di contemplare segno e colore. Giovanni è il solo dei tre in cui si noti un progresso continuo, in cui l’arte si ragioni anno per anno, mentre Carpaccio, Gentile, Giorgione si possono studiare in blocco e la loro arte non ha date. Carpàccio e Gentile hanno una fantasia più agile e compiuta, Giovanni più laboriosa.

Gli schemi di Giovanni sono 4 o 5: La Madonna, la Conversazione, Cristo’, il quadro allegorico.

In questi schemi egli lavora per portarli a perfezione; Nella Madonna, da Bisanzio a Tiziano, ossia dalla decorazione alle carni c al colore. Nel Cristo sotto la influenza di Mantegna con la necessità di contempcrarla ai suoi toni naturalmente più delicati.

Il sommo di questa ascensione, di questa liberazione dal decorativo per giungere a materie e colore autonomi è Ciorgionc. Bellini che si cimenta.vecchio con Giorgione e lo vince è un destino, non una bizzarria; l’aveva vinto prima che Giorgione nascesse, nel Cristo di Brera e nel Cristo di Londra.

Così illuminata intorno ad un dramma pittorico l’arte di Oianibeliino non è più una poesia mancata o visione isterica: è una necessità lirica, compiuta pacatamente. Pacata infatti c non morbosa è la sua religiosità. Senza programmi, senza tormenti, l’arte di Venezia compie nei due Bellini una lunga era. E’ ormai l’arte matura e Giorgione e Tiziaifo hanno i loro problemi già risolti.

La felicità di Tiziano si spiega così. Giorgione è più tormentato perchè l’annuncio che egli porta è quasi estremista e incendiario.

Giorgione è un futurista del ’500. In realtà però egli va connesso con Bellini.