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IL BARETTI

MENSILE Le edizioni del Barelli Casella Postale 472 TORINO ABBONAMENTO per II 1926 L. 10 - Estero L. 15 • Sostenitore L. 100 • Un numero separato L. 1 - CONTO CORRENTE POSTALE Anno III - N. 6 - Giugno 1926 Fondatore: PIERO GOBETTI S0OROMO,! ZAlTSBvl1 Hup*"’0,U0’ “m,Cl,U‘,‘b,, cht “ ORBSTE: ch«fll’Ch“P’‘“ • " ’•»«bbr. d.ll oro, — 4: Lederà «perla a un " ami da l’Ilalle.. — PIERO OOBETTI: La poaala di Oalnaborough — MARIO

Lettere di Silvestro a’ suoi amici sui libri I.

A ìfario Fubini.

Anzitutto non so se mi potrai mai perdonare d’aver posto il tuo nome nell’indirizzo di quosta, prima d’ima serie di false lettere destinate, almeno ncH’intenzionc (del resto innocua) dello scrivente, ad un più vasto cerchio di pubblico e dissertanti intorno ad una materia, ahimè I così poco intima e confidenziale. So devesi tentare di mettere inuanzi delle giustificazioni per avere assunto un modo così antiquato insolito cd ambiguo di comunicazione letteraria con il mio prossimo, non so davvero come riuscirei a cavarmela. Ma proprio dovrò accingermi ad in.

dagare se a ciò m’abbia indotto piuttosto un umor ritroso e selvatico o non forse un gusto decadente prezioso cd arcaico? Come se tutte lo parole e le azioni che vengou fuori ogni giorno su questa nostra vecchissima terra volessero, o meritassero, una giustificazione: e massimo gli articoli di giornale!

A te por altro, mio carissimo Mario, potrò confessare che, chiamando a raccolta voi tutti amici, e mettendo sotto la protezione de’ vostri nomi (e del tuo prima che d’ogni altro) queste mie solitario divagazioni, ho obbedito por così dire ad un scgrolo istinto, che mi spingeva a mantener viva intorno a queste pagino l’atmosfera d’intimità, donde scaturirono, conscia di interminabili conversazioni peripatetiche o di tanto lunghe ed inutili discussioni, che han popolato la nostra adolescenza già così lontana.

Ambiente raccolto o quasi famigliare, che ogni altra definizione, tranne questa che ho scolto di lettere, avrebbe irrimediabilmente distrutto.

Così ch’io credo elio a te pure, còme a me, parrà soliamo di riprendere un vecchio dialogo interrotto, quand’io timidamente (come persona priva di lumi speciali in materia) verrò a riferirti un dubbio, che già altre volto ci ha preso, ed ora ritorna a turbarmi, incalzante ed ansioso di esprimersi: so cioè proprio le lettere italiane d’oggidì siano in quel fiore e rigoglio che dà molte parti si va dicendo e vantando.

Dopo il periodo delle battaglie c delle polemiche, che ha preceduto o seguito per alcuni anni Feltra c più vera guerra, par che sia giunto il tempo della concordia: idillica ed arcadica pace diffusa per tutte le scuole ed i cenacoli letterari della peninola, come per un improvviso incauto. Se ieri soltanto gli scrittori di Roma chiamavan borghesi quelli di Milano, c i milanesi accusavano di freddezza i romani; se ancora non è del tutto spenta l’eco delle gran bòtte o de* fendenti che si mcnavan giù senza pietà ne’ tornei dei vociarli o nello quintane de’ neoclassici: oggi tuttavia pare che sian tutti disposti ad abbracciarsi scambievolmente, tutti uniti, tutti amici, tutti fratelli. Ora può darsi che l’Arcangelo Micholu preparasse davvero gravi danni all’esercito Saracono, quando intro, dusso, rom]>endo!e un manico di croce sulle spalle, la Discordia nel campo d’Agramantc:

ma è certo invece che fra’ letterati le discussioni anche aspre, son segno quasi sempre di vita (anche per chi non voglia dare soverchia importanza alla variopinta vicenda delle teorie e de’ progetti), mentre i periodi di generalo concordia coincidon por lo più con una decadenza diffusa e mortale.

La pace, che permetto a scrittori di diversissimo valore di trovarsi insieme senza disgusto sullo pagine di uno stesso giornale, c induco i critici a misurare le loro parole con le regole d’uua generosa cortesia o della più ampia tolleranza, crea a poco a poco un’atmosfera d’acquiesconza rilassata e molle, dove tutto finisce di sembrar buono a coloro che han paura d’ap.

parirc incontentabili. Che un ambiente troppo pacifico sia esiziale allo buone lettere lo prova anche il bisogno, più volte di fatto mostrato da quoi letterati stessi che s’abbandonano agli ozi snervanti che abbiamo descritto, di creare discussioni e liti artificiose, al posto di quello vere o spontanee, onde romper la monotonia d’un mondo privo di difficoltà e di pericoli.

Così oggi, mentre oravam commossi fino allo lacrimo dalla nuova bontà o fraternità degli che legge scrittori italiani, non son pur mancati squilli di false but taglie (tutti hanno ancora in mento certa affettuosa polomica sulla critica, della qualo sarà bene riparlare un’altra volta): liti garbate, non d-’ssimili da quelli che sui campi sportivi si chiamano matches amichevoli. Ma gli sportnwn sanno bone come nulla sia più insipido, noioso ed insopportabile d’uua gara amichevole.

E cosi le polemiche, che Umberto Fraechia ci imbandisce di tanto in tanto sullo tolleranti e pacifiche pagine della sua Fiera letteraria.

Un’altra conseguenza dell’eccessiva concordia ò che, spuntati i pungiglioni delle invidie e rinfoderate le Bpadu de’ critici, i più degli scrittori fiuÌ3con col rassegnarsi umanamente alla loro debolezza o con Padellarsi a poco’a poco ad uu’attività sempre più convenzionale e commerciale, senza ritegno e senza pudore Non pardi sentire tutt’iutorno a noi non so che aria di decadenza e di bassezza, che asseconda i gusti peggiori del pubblico, anziché moderarli c correggerli, e saluta a gran voce d’applausi i libri più facili e vendibili, mentre lascia passare inos3orvat.i i migliori?

Vedi, per esempio, le accoglienze manierate e false onde fu accolto, ne’ nostri ambienti letterari, I’ullimo libro di Giovanni Papini, nello quali affetto od amicizia per l’uomo han finito di prender il posto del rispetto, che si devo coni unque allo scrittore, anche a costo di dirgli verità dolorose e spiacenti. A proposito di queste accoglienze, altri già ha osservato no’ critici un ritegno, una titubanza non molto lontani dalla paura. Il ohe mi par tanto più grave, se si pensi clic questo Pane vino ò venuto quasi naturalmente, o forse contro la speranza stessa dell’autore, a porsi tra quoi libri che abbinili chiamato alla moda e commerciabili. Molte cose, o persino corta eleganza preziosa doll’ediziono o della fit&mpà su carta a mano con timbro a secco o motto del poeta, mi fan pensare che il libro debba aver trovato facilmente il suo posto nei salotti delle signore, accanto ad altri, compagui poco desiderabili e forse poco desiderati.

E non voglio già dire che ciò sia gran male:

ma certo, da siffatti ambienti, il lupo di Gubbio deve uscire alquanto ammansato ed intinto di buona educazione.

Forse per esser nati un po’ troppo tardi, noi non abbiam conosciuto di fronte a Papini quelle reazioni di simpatia o d’antipatia, in ogni caso esagerate e violente, che altri han provato e descritto, i quali debbono averlo visto uscire sul carro del trionfo, tutte le bandiorc spiegato al vento, tra squilli di trombe e grida festose.

Cotesto gran clamore era già da tempo sopito quando noi, evitando cautamente la noia che indovinavamo persili ne’ titoli delle Stronca, trirr, dollc II il fonate, dol Crepuscolo dei filo, sofi, eco., ci volgemmo a leggere, can la curio, sità del dilettante, quegli altri libri dei quali alcuni valentuomini ci avevano dotto gran bene.

Non dimentichiamo il gusto che abbiam provato leggendo certe pagine dell’Homo finito: le passeggiato silenziose insieme con il babbo per strade deserte e fuori di mano incassate fra muri umidi o bigi; il tristo, volontario, dolcemente stilizzato sogno d’amore d’un fanciullo che va con una bimba umile fragile, ncr strade illuminate dalla luna, tra il pateiico cantare dei grilli; le lineo d’una amicizia severa solitaria o sdegnosa. E potremino citare anche altre coso dalle Cento /pagine di /mesta (I miei amici, Un giorno soltanto); e dei Giorni di festa ci tornano in mente- i freschi c chiari ricordi di Buiciano:

figure di contadini e donne dei campi, animali e cose disegnati con affettuosa precisione, cieli burrascosi e sereni, terre lavorate e riarso. Senonchè, se ripensiamo u cotesto letture, ci pare di non aver potuto mai liberarci da un certo senso di freddezza olio da quelle pagine scaturiva, come da mi esercizio volontario e artificioso, non mai dinciolto, come ai dice, in poesia pura. E non ho se oggi riusciremmo a leggere quei libri fino in fondo: temo che delt t/omo finito ci turberebbe, ancor più della prolissità autobiografica, la prosa anfanante e spesso cresecnto a vuoto su sè stessa, por meri richiami verbali; e in tutti gli scritti poi non sapremmo tollerare l’intrusiono continua o violenta della persona pratica c polemica dell’autore; il vezzo d’adoperaro le figure c lo coso descritte, non come fine a sé stesse, ma quasi mezzi all’artificiosa dimostrazionud’un concetto; la volgarità e superficialità quasi in ogni parto diffuse. Vero è chu da molto tempo, prima che venissero ad insegnarcelo gli esegeti, abbiamo imparato a cercare in quei volumi solo i frammenti descrittivi o paesistici: ma d’altra parte la nostra esperienza pur breve ci ammonisce a diffidare di quegli autori, dei quali si lodino soltanto a dovizia e la perizia delle descrizioni:

indice di non lontana e quasi sempre sicura noia. Ogni qualvolta, usciti appena dalla lettura d’un libro di Rapini, mezzo assordali ancora ed abbagliati dalla foga luminosa e tuonaiite di quoi fuochi d’a.’lificio, ci siam provati a mettore insieme un abbozzo di giudizio critico, abbiiim trovato nel nostro animo due impressioni parallele che {ratevano parere contradditorie:

il senso d’un lavoro contrasto a freddo, senza il sostegno d’unu costante ispirazione, e d’altra parte il ricordo d’una facilità leggera e scorrevole, mu tutta esteriore, senz’ombra di riflessione e di studiosa fatica. Invero, so la costruzione di queste pagine d’arte lascia troppo spesso scorgere la fragile impalcatura di concetti che la sostiene senza disperdersi in essa animali, dola, d’altronde i momenti più felici o più cari al nostro gusto non van privi del sentimento d’una eccessiva semplicità, d’un troppo confi, dente abbandono, che s’appaga di modi e frasi convenzionali e si compiace del suo giuoco troppo abile e lieve. Anche noi crediamo che molto pagine di Papini, polemiche od autobiografiche, letterario o teoriche, sian state scritte (come altri OMcrvò) per una pura gioia di scrivere:

senonchè vorremmo distinguere tra la vena ab hondantc cd abbandonata del lettcrato-giorna.

lista e il gusto vero del cauto, ch’è del poeta, il quale risolve in osso e travolge ogni oggetto offerto alla sua riflessione.

E se non ci fu dato mai di scorgere in Giovanni Papini la serietà o l’attenzione di un filosofo vero, nò la purezza c la misura d’un sincero poeta, molte volte invece da’ suoi scritti — dai giochi delle parole e dal ruzzolare vano dei periodi, come dagli echi molteplici e troppo evidenti di musiche disparate d’ogni regione e «Fogni età — s’è presentata alla nostra mente la maschera, in Italia ben nota ahimè! del letterato.

Voglio dire di quel tipo di letterato becero parolaio e linguaiolo, cho il Doni e l’Aretino per esempio rappresentano: tipo che solo il mal gusto d’oggidì ha potuto esaltare sopra la vena sobria c signorile dei veri prosatori classici del nostro cinquecento, dal Caro al Castiglione, dal Firenzuola a Monsignor Della Casa.

Come in quegli scrittori, anche nel Papini Fonda dell’ispirazione è breve e quasi sempre turbata da preoccupazioni estranee: si sfoga tutta in poche righe, talora in una parola sola ben trovata ed efficace, poi si raggela in un motto, in un frizzo in un commento.

Quando venne la conversione, non ci stupì.

Piuttosto ci la3ciaron perplessi i rumori ch’essa suscitò noi nostri ambienti letterari, e che a noi parvero soverchi ed inutili, por non diro ingenui e provinciali. A parer nostro non c’era nul!u da diro, so non forse riconoscere ancora una volta, come qualcuno ha detto, cho alla religione cattolica han sempre recato danno coloro che vi aderiscono per ragioni meramente mistiche e sentimentali. Quanto al valoro letterario della Storia di Cristo, ci fu tra noi (te ne ricordi, Mario?) chi la giudicò una perfettissima collezione di temi svolti, messi insieme con una sapienza decorativa astuta e superficiale e frigidissima.

Ne questo ci parve solo uno scherzoso e facile paradosso La convinzione religiosa non ha costretto Papini, come altri poteva sperare, a ripiegarsi su sò stesso, non gli ha dato il bisogno d’una più profonda o difficile interiorità, non ha mutato i suoi istinti centrifughi o vagabondi.

Anche il silenzio recente abbastanza lungo dovremmo giudicarlo frutto d’una stanca aridità piuttosto che non di penosa riflessione.

Ora egli ci dà un nuovo libro di poesie in rima, che è il secondo del goncre nel complesso delle sue opere. Cosi mi ha messo in animo la voglia d’andare a cercare l’altro cho non avevo letto mai. E «ranno ogni possibile previsione, ho trovato che nel confronto il più vecchio de’ due fratelli ci faceva miglior figura. E’ vero che, a leggerle oggi, le strofe barcollanti dolPOpera prima, con le loro preoccupazioni di solidità conquistata, han qualcosa d’antiquato e d’infantile; e anche ci fa un po’ ridere Fautore, quando, nelle sue ragioni in prosa, vien fuori proclamandosi quasi precursore e rinnovatore (al solito f) del classicismo poetico. Così pure leggendo come Papini creda «d’avor fatto poesia che non somiglia troppo a quella cho c’era», ci domandiamo meravigliati che cos’arano allora corte risonanze di motivi svariati e discordanti elio qua e là avevamo avvertito.

Forsechc, arrivati a leggere la quindicesima poesia, non avevamo creduto d’intravvcdere la ombra del vecchio Pascoli, un po’ stinta e stemperata attraverso gli esercizi lirici del buon Marino Moretti? Altra prova della materia fragile e un po’ trita che si nasconde sotto le appa.ronzo esteriori di questo false ricerche cerebrali.

Tuttavia nell’Opera prima, Papini aveva saputo mostrarci una certa virtù non sempre spregevole, e sopratutto aveva saputo limitare il suo vagabondaggio entro i confini d’un contenuto tutto personale ed astratto. In Pane e vino egli ha rinunciato ad ogni infingimento o ad ogni difle3a, c ha voluto prender di petto dirottamente e coraggiosamonto una più ampia varia c ricca materia umana. C’è un gruppo di poesie di tono por così dire maggioro c più solenne, che nessuno lia potuto lodaro, c sulle quali mi parrebbe inutile fermarsi a ragionare e discutere. In esse come nel Soliloquio introduttivo, rivive il polemista ed il retore, che tutti conoscono anche troppo: non mutato nel fondo, sebbene stia oggi ad esaltare e difender) idee e cose che lori soltanto insultava. Però a parer mio, non basta distinguere (come hai; fatto su per giù tutti i critici che han voluto occuparsene) la parte fantastica pedonale»• sentita di questo libro da quella puramente pòIonica e retorica. Occorre veliere fino a cho punto, nello poesie che rimangono, la sincerità umana si trasformi in sincerità lirica. Ecco intanto un primo gruppo di componimenti àutobiografici, nei quali compaiono, sebbene vagamente idealizzate, la sposa, Viola o Gioconda.

Tutti citano, di queste poesie, strofe staccate, nelle quali un’agile e leggiadra grazia certamente risplende, senza impedirci tuttavia di sentire sotto sotto un mo,do di procedere troppo lesto e facile perchè ci possa persuadere appieno.

Se andiamo ud osservare le cose più da vicino, la prima impressione si consolida. Dappertutto intanto ci si affacciano echi e ricordi d’altri poeti, in specie pascoli ani.

E poi l’ordito tenue di ciascuna, costruzione si sfascia senza resistenza fra le nostre mani. Saprebbe imitile mostrare ad uno ad uno i vizi musicali e poetici di poesie come La sposa, le parole ripreso da un verso all’altro senza necessità, 10 scorrer dei versi troppo liquido e cantabile, e persino corti modi lirici tra il fomminco ed 11 puerile:

nella mia casa di pietra celeste aperta al cielo color paradiso...

E confronta, in Gioconda:

tutta di luce color primavera...

Anche i frammenti, che si posson scegliere, nascon per così dire sul vuoto, e mnneau di consistenza I.’abbandono dei modi ingegnosi e volontari dclFOpcra prima, il desiderio di sempli.

filiazione si rivela dannosissmo al poeta.

In un altro gruppo di poesie lodate, quelle che prendono il loro motivo da descrizioni di paesi, stagioni, ore del tempo, spiace il vezzo antico del Papini di istituire rapporti falsi ed artificiosi tra le cose descritte e le vicende do’ suoi personali affetti. Come ognuno può vedere da se, osservando le poesie Primo settembre o anche Luglio, nella qualo un’efficace sestina descrittiva si perde nella doppia falsità dell’ispirazione artificiosa e della manierata costruzione metrica.

Meglio persuadono per la loro sincerità, e quasi piacciono per un senso di più consapevole e meditata tristezza che vi trapela, altre poesie che formano un terzo gruppo a sò: Solo, Peli, cifri irrimediabile. Offerta, l Prigioni Se puro anche in esse starnili paghi a trovare nicut’altro che un’onda d’eloquenza più calda e sincera, e forse un presagio di redenzione, non la conquista d’un tono lirico perfettamente sereno e compatto. In tutto il libro d’altronde credo sarebbe impossibile scoprire anche un solo gruppo di versi, noi quali riluca, espresso in perfetta purità, un sentimento od una immagine. L’impressione definitiva è, nel lettore, di desolato sconforto, che quasi non consente ulteriori speranze.

Ad ogni ritorno, ritroviamo il vecchio Papini, immutato.