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280 Matteo Bandello

     Per cui se stesso il cor disprezza e oblìa.
     40Onde non so se morto, o vivo sono
     Da poi che ’l mio conforto,
     Come mia stella vuol, abbandonai.
     E se di vita il segno in viso porto,
     Vien così raro dono
     45Da’ begli occhi più chiar, che ’l sol assai;
     Chè fanno ancor que’ rai
     Con la virtù di lor pietà natìa
     Spirar la vita in me, com’era pria.
Ahi! strana vita, che pur morta spiri,
     50Ond’io tal provo strazio,
     Che giunto son di Stige sulla riva:
     Quanto di fiumi, mari e monti spazio
     Da que’ soavi giri
     Mi tien diviso, e posso dir ch’i viva?
     55In tutto l’alma schiva
     Meco restar a farmi compagnia,
     Nè trova a darmi aìta più la via.
Così mi veggio, Amor, già giunto a tale
     Ch’io vivo non vivendo
     60E d’uomo sono un’ombra sol, e un segno.
     E pur mi meraviglio morto essendo.
     Che ’l pianto in me sì sale
     Qual era allor ch’entrai dentro il tuo regno.
     Però per fermo i’ tegno
     65Morendo non morir, e tuttavia
     Per fuggir morte il cor morir disia.


Vv. 2-3. Ch’io viva e vita, viver, senza vita, la mia vita, il vivo raggio ecc., continuando l’analisi per tutto il componimento si vede come il poeta ripeta e insista con giochi di parole, fino alla sazietà, sul suo concetto.

V. 33. Il cor, or m’apre, or serra, è il petrarchesco: «E i cor ch’indura e serra», Canz., CXXVIII, v. 12.

V. 51. Stige, la trista palude; cfr. Dante, Inf., VII, v. 106 sgg.