Pagina:Il Canzoniere di Matteo Bandello.djvu/33

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32 Introduzione

di «messer Francesco Berni», al quale dedica una novella (I-34), si ritrovò anch’egli a comporre tra le molte sue sentimentali e spirituali, di stampo petrarchesco, facili rime alla bernesca, che servivano allo svago di un’ora. Una volta almeno, noi lo sorprendiamo col desiderio di scriverne, e ciò quando, durante un banchetto, dopo aver parlato delle rime «piacevoli del Bernia» e delle «festevoli Muse del Pistoia», esce a dire: «Che io per me — a proposito de “i peccati della moglie” di Gandino bergamasco e delle pazzie del frate confessore (I-34) — sarei, se stile avessi, sforzato a farvi suso una Iliade e mandarla a Roma, che fosse consacrata a messer Pasquino o al gran barone ser Marforio»; del mordace «maestro Pasquino», di cui fa il nome anche in altra novella (I-39).

Eppure, se non mancano nel suo Canzoniere taluni sonetti di frivola galanteria — che prendono argomento dalla morte d’un cane o d’un gatto, o dai «ricchi, leggiadri ed odorati guanti» della sua dama, con leziose smancerie d’un arcadico «settecentismo» anticipato — non vi furono però inclusi i fatui componimentuzzi che per avventura gli uscirono dalla penna. Il Bandello — lo attesta Paolo Fregoso — non era così corrivo come a tutta prima parrebbe, e taluni dei suoi parti in prosa e in verso, «non li satisfacendo in pieno come avrebbe voluto, consacrò a Vulcano».

Larghe e frequenti furono inoltre le relazioni intellettuali del Bandello coi poeti, con le poetesse dell’età che fu sua; ha con molti e molte di esse consuetudine di vita aristocratica e di studi, perfino corrispondenza in rima; scambia versi latini e volgari, si fa teorico dell’arte del poetare con una sua «poetica» in ampolloso latino, e a suo modo, si fa storico di tal