ebbero in uso di tralasciar quasi sempre l’articolo de’ nomi, e che questo oggi non si ha a fare, o sol quando si vuol dare ad un concetto una certa forza e gravità. Perocché il Boccaccio, maestro solenne di tutte le toscane eleganze, e che il primo diè regola e norma costante alla favella e forma e nobiltà allo stile, quasi mai non tralasciò gli articoli de’ nomi, nè li tralasciarono il Casa, il Firenzuola, il Caro, il Giambullari, il Gelli, e gli altri più tersi ed eleganti scrittori del decimosesto secolo. Onde io mi penso che quei buoni vecchi facessero a quel modo tra perchè allora il nostro volgare di corto era nato del latino, e manteneva ancora alcun che della materna sua forma, e perchè quei pochi che a quella età eran tinti di lettere, non avendo altri esempii da seguitare che gli scrittori latini, e questi il più delle volte essi traslatando, troppo puntualmente in ogni cosa si sforzavano d’imitarli. E, come dissi avanti, così intervenne, benchè assai di rado, pure al nostro Frate Bartolommeo, ed eziandio allo stesso Boccaccio: anzi questo singolarissimo ingegno, volendo dar leggiadria e splendidezza allo stile, che semplice e rozzo era nelle scritture di quell’età, non altrimente che Dante, agli autori latini egli pure si rivolse. Sicchè, propostosi Cicerone ad esempio, ch’è il maggiore tra quelli, e cui egli per natura sentiasi più tratto ad imitare, diè al suo periodo la larghezza, il giro, e quasi la medesima armonia del periodo di quel maraviglioso oratore. E dissi quasi la medesima armonia, perocchè il padre della toscana prosa, quantunque molto s’ingegnasse d’imitar Tullio, e con grande studio collocasse le parole ed intrecciasse gl’incisi delle sue clausole, ed oltremodo fosse sollecito della musica dello stile, pur nondimeno non diè a’ suoi periodi la cadenza oratoria. Solo, se mal non mi appongo, e, se erro, ripigliatemi pur liberamente, il grande desiderio di nobilitar la nuova favella d’Italia, ed il sommo studio, ch’egli pose negli scrittori latini, e segnatamente in Cicerone, il trassero forse ad esser talora, più che non era uopo, sollecito di aggiugner particolarità alle cose, e ad usar troppo scoperto artificio nella collocazion delle parole e nell’intrecciatura degl’incisi delle clausole, ed a cacciare il verbo quasi sempre in fine del periodo. Ma questi rari e lievi falli, i quali niuno nelle condizioni del Boccaccio cansar potuto non avrebbe, se non sono