Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/268

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gneti nereggiavano in grandi scacchi, col fitto fogliame, e gli ulivi arrampicati per l’erta, macchinosi, protendevano i rami in basso, quasi volessero toccare il terreno. Ma quelle vigne ch’egli sapeva cariche di piccoli grappoli che tra qualche mese si sarebbero ingrossati e anneriti o ambrati sotto il benefico calore del sole; ma quegli uliveti che, avuta una felicissima fioritura, erano già onusti di frutti inverdicanti lietamente per la maturazione, non gli producevano, quel giorno, nessuna impressione di gioia; quasi vigne ed uliveti non avessero poi dovuto dar lavoro alle macine, agli strettoi, ai pigiatoi, e riempire i coppi e le botti.

Perchè questo scorato presentimento? Non sapeva spiegarselo.

Era scontento di sè, de’ suoi progetti, di quel che aveva fatto, di quel che avrebbe voluto fare in séguito, di tutto. Gli pareva che ogni sua cosa dovesse risolversi in vanità, in inanità, e che la stessa sua esistenza fosse intanto un’inanità e una vanità maggiore delle altre. E cominciava a ripensare:

— Non v’è certezza di niente!

E tornava a domandarsi:

— Ma dunque?... Ma dunque?

Sempre daccapo! Quando s’immaginava di aver domato o vinto quel tormentoso nemico interiore, lo vedeva insorgere, tornare all’assalto più vigoroso e più insistente di prima. Ogni tregua riusciva il-