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356 capitolo settimo

La notte prima della visita di Benedetto aveva sognato un gran rosaio del giardino dov’era trascorsa la sua fanciullezza. Le bianche rose piegavano tutte a lui, lo guardavano, nel mondo dei sogni, come curiose anime pie un pellegrino nel mondo delle ombre. Gli dicevano: «dove vai, dove vai, povero amico, perchè non ritorni a noi?» Destatosi, aveva sentito un desiderio di rose, tenero, pungente fino alle lagrime. E quante rose adesso sul suo letto, per la bontà di una persona santa, quante belle, odoranti rose! Tacque e fissava Benedetto a bocca semiaperta, lucenti gli occhi di una domanda dolorosa: tu sai, tu comprendi; cosa pensi di me? Pensi che vi sia speranza di perdono?

Benedetto, curvo sull’ammalato, prese a parlargli accarezzandolo. La vena delle parole soavi fluiva fluiva con un suono vario di tenerezza ora lieta ora dolente. Ora il vecchio ne pareva beato, ora usciva in domande affannose; subito allora la fluida vena soave gli ristorava beatitudine in viso. Intanto la gobbina andava e veniva col rosario in mano dalla sua camera all’uscio del vicino, divisa fra il desiderio di precipitare le avemarie in quel momento decisivo e il desiderio di udire se là dentro parlassero, cosa dicessero.

Ma giù nella strada si era venuta raccogliendo, malgrado il cattivo tempo, della gente che aspettava il Santo di Jenne. Una merciaia lo aveva veduto