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388 capitolo settimo

preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell’accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo.

La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un’idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma «il signore» volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant’Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l’ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis, giunse infine al cancello di villa Mayda.

Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perchè verso le nove un de-