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456 capitolo nono

perfezione propria e di premio. Sentiva dolore di avere così obbedita solamente a parole la legge che all’amore di sè stesso antepone l’amore di Dio; ed era un dolore dolce, non perchè gli fosse facile trovare scuse all’errore, imputarlo a maestri, ma perchè gli era dolcezza sentire il proprio niente nell’onda di grazia che lo avvolgeva. E sentiva il proprio niente in quel passato sfacelo di una religiosità manchevole, operato dall’insorgere dei sensi, nella depressione centrale della sua vita, tutta un tessuto di sensualità, di debolezze, di contraddizioni e di menzogne; il proprio niente anche nella vita posteriore alla sua conversione, impulso e opera di una Volontà interna e prevalente alla sua, durante il quale ultimo tempo gli pareva di avere, per conto proprio, solamente gravato contro l’impulso buono. Anelò a deporre come una spoglia pesante tutto quel «sè» che lo tardava. Conobbe parte di questo «sè» pesante anche l’affetto alla Visione, aspirò alla Verità Divina nel suo mistero qualunque ella fosse, si donò a lei con tale violenza di desiderio da spezzarsi, quasi, nel palpito; e le stelle gli folgorarono un senso così vivo della incommensurabile grandezza della Verità Divina di fronte alla concezione religiosa sua e dei suoi amici, e insieme una fede così certa di essere avviato a quella immensità, ch’egli esclamò alzando di scatto la testa dal guanciale: